Zoppu Zanchedda di mestiere mangiava cibi schifosi. Non c’era erba o bestia che nella sua vita non avesse masticato, gustato e inghiottito. Aveva cominciato da bambino nei giorni brutti dopo la guerra, quando i gatti servivano da conigli e qualsiasi cespuglio era buono se avevi un po’ di aglio e olio per farlo saltare in padella. E ogni tanto qualcuno schiattava per una mangiata di erba velenosa. Ma a Zoppu niente faceva male e tutto gli piaceva. Se aveva una cornacchia per le mani, non sognava pernici o galline. La spennava tranquillo, la spanciava e poi preparava la carne nel modo più acconcio per ammorbidirla. E lo stesso faceva con la curora, la tirighetta e lu tiribiccu. E anche la volpe, quando il vicino, che aveva un grande pollaio, ne catturava una che tentava di rubargli le galline. -Oh Zoppu, aggiu ammazzadu un mazzoni. A lu voi? -Emmu. Grazia, signò Zunia’. E la spellava, la lasciava macerare e poi se la faceva in umido con pomodori selvatici, quelli che crescono ai bordi degli orti da semi vagabondi che viaggiano con il vento, e olio spremuto da bacche di olivastro oppure strutto ricavato dal grasso di chissà quale bestia. Col tempo questa sua cucina era diventata un mestiere. I tempi erano migliorati, c’erano più soldi e i signori avevano ripreso non soltanto il gusto di mangiare ma anche quello di togliersi gli sfizi. E Zoppu lo pagavano bene almeno una volta alla settimana, il venerdì o il sabato, in genere, quando lo chiamavano a certe cene dove insieme all’agnellino, il ragù di manzo o il cinghiale al sugo, doveva preparare anche gli occhi di pecora bolliti, i rospi fritti o le fette di pale di fico d’india ripulite dalle spine e poi impanate e fritte. E lo guardavano schifati e rapiti che ingurgitava questa roba, mentre loro mangiavano quella buona. E alcuni di loro, i più arditi, si azzardavamo ad assaggiare e poi sputavano, mentre gli altri ridevano. Così Zoppu si era potuto sposare con Catì, che lavava i panni alle Conce e che era bella e che sapeva di donna e non di topo. L’aveva tolta dal lavatoio e lei portava a casa anche più soldi di lui andando a lavare e stirare nelle case dei clienti di Zoppu. Andarono ad abitare in un grande sottano che aveva persino una finestra e quindi non prendeva luce soltanto dalla porta d’ingresso, come tutti gli altri. Avevano anche una latrina con una vasca per lavarsi e nell’unica grande stanza c’era il loro lettone e davanti al letto la cucina a gas con la credenza e il lavandino. Ed erano felici, Catì, Zoppu e i figli che erano arrivati. Salvo che spesso Zoppu tornava a casa con una manciata di cadarani morti o impugnando una carta di giornale con due o tre cazzi di mare spinti dalla risacca ad Abbacurrente e raccolti dai ragazzini che li portavano davanti al mercato. E chiedeva a Catì -A mi li cuzini? E Catì per amore si turava il naso e tra un conato e l’altro glieli preparava nel modo migliore. I figli diventarono grandi, andarono per le loro strade e loro invecchiarono. Sino a quando arrivò per primo il momento di Zoppu. Si sentì male proprio alla vigilia di Natale, arrivò il medico, lo visitò e stette zitto sino alla porta, dove guardò Catì scuotendo la testa. -Signo’, e bisogna chi v’attrinzedi. Po assè oggi o massimu dumani. Catì fece chiamare tutti i figli, poi si asciugò le lacrime e tornò al lettone dove giaceva Zoppu, magro e pallido, con le guance incavate, gli occhi socchiusi che si vedeva il bianco e la bocca aperta in una O che sembrava già andato. Zoppu la sentì arrivare e si rianimò. -Cosa t’ha dittu lu duttori, chi soggu murendi? Catì non rispose e pianse. -Caterina… Catì si riscosse e gli afferrò una mano. -No mi ciamà digussì! M’ai sempri ciamada Catì e sighi a fallu. -Emmu, Catì. Ti vogliu di’ chi tu e li pizzinni i’ la vida mea m’avedi datu tuttu. Catì singhiozzava mentre i figli cominciavano ad arrivare e si disponevano intorno al letto. -Soru una cosa mi manca… I figli si guardarono tra loro mentre Catì gli si parò innamorata davanti agli occhi che fissavano il soffitto. -E cosa, Zoppu me’? Dimmila e ti la doggu abà. -Eu aggiu magnadu tuttu. No v’è besthia o pianta chi no aggia attasthadu. Ma… -Ma?- chiesero tutti ansiosi. -No aggiu mai magnadu merdha. Catì ripiombò a sedere sul letto mentre Zoppu, parlava con sempre più difficoltà. -Catì, cuzinamilla un aizu di merdha! E’ l’ulthimu disizu meu. E’ la zena mea di Pascha di Nadari. Catì guardò smarrita i figli, che le fecero di sì con la testa. Tutti sapevano che i cibi immondi, dopo la famiglia, per Zoppu erano la cosa più importante, erano il suo mestiere e morire senza avere mangiato il più prestigioso di essi avrebbe reso incompleta la sua vita di uomo onesto. Catì allora prese un pentolino, andò nella latrina e ne uscì tenendo il pentolino lontano dalla faccia. Andò al lavandino, fece cadere un po’ d’acqua nel contenitore e quindi lo mise sul fornello. Zoppu seguiva ansioso i preparativi cercando di sollevare la testa dal cuscino. -Catì, poni u’ pogu di sarippa. Catì aggiunse del sale al miscuglio. -Buddendi è? -Emmu, Zoppu me’. Mi pari pronta. -No, girala e dassara buddì. Catì rimestò con un cucchiaio di legno la poltiglia dentro il pentolino, voltando la testa per evitare che i vapori gli entrassero nel naso, mentre i figli intorno al letto trattenevano i conati e i vicini che si erano assiepati alla porta del magazzino ogni tanto si allontanavano per respirare, poi trattenevano il fiato e tornavano sulla soglia a guardare. -Girala, girala, dalli buddori. -La soggu girendi, ma mi pari cotta. -Attasthala, Catì. -Ma eu… -Attasthala, Catì. La merdha debi assè bedda cotta. Soggu murendi e chistha è l’ulthima cosa chi ti dumandeggiu. Catì intinse la punta del cucchiaio e se l’avvicinò alle labbra. -No, Catì, no digussì. Una bedda cucciarada, d’althra manera no lu cumprendi si è pronta o no! Catì riempì il cucchiaio, trattenne il fiato e se li ficcò in bocca, diventò bianca bianca e infine deglutì. Zoppu con le ultime forze si sollevò seduto sul letto, mentre i figli si precipitarono ad aiutarlo. -Ebbè, Catì, cument’è? -Zoppu me’, merdha è! -E tandu no la vogliu. E spirò.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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