L’8 gennaio del 1973 cominciò il processo contro i cinque uomini scoperti ed arrestati nel quartier generale del Comitato nazionale democratico, dove stavano riparando alcune microspie già piazzate qualche giorno prima. Si sollevò la pietra e venne fuori un tale brulichio di vermi che il presidente repubblicano Nixon, nonostante la sua protervia, fu alla fine costretto a dimettersi. E da allora Watergate è diventato sinonimo di scandalo politico, di sipario sollevato su un complotto. Io adesso non so più quanto questa storia sia vera in ogni suo particolare. Voglio dire, quanto sia del tutto vera nel modo in cui la conosciamo. Soprattutto nella vulgata che per il grande pubblico tramanda ancora il film di Alan Pakula del 1976 “Tutti gli uomini del presidente”, ispirato al libro di Bob Woodward e Carl Bernstein, i due giornalisti del Washington Post che cavalcarono lo scandalo. Quei due avevano come fonte principale l’Fbi, che non era propriamente un campione di democrazia, e i perseguitati del maccartismo ne sapevano qualcosa. E c’è ancora chi ritiene che il misterioso “Gola Profonda” non fosse anche lui un pezzo grosso del Federal, come lo stesso Woodward poi rivelò, ma addirittura Kissinger, che da quello scandalo uscì pulito pulito, ma i cui rapporti con certi regimi gettano ancora, come dicono quelli corretti, “un’ombra inquietante” sul ruolo degli americani nel mondo. Ma, insomma, al di là di queste dietrologie, non ci sono dubbi sul fatto che il Watergate è sostanzialmente una storia di violazione delle regole democratiche da parte del potere e di splendido ripristino del diritto da parte di una democrazia solida che usò come arma la libertà di stampa. Però adesso ne voglio parlare soltanto per un curioso riflesso autobiografico. Perché nel 1973 io ho cominciato a fare il giornalista e quindi sono cresciuto professionalmente negli anni in cui il presente del Watergate mentre succedeva già diventava mito. Io credo che una roba del genere non sia accaduto neppure con la guerra di Troia. Tutti gli aspiranti guerrieri di quegli anni avranno aspettato che le avventure di Achille & C. sedimentassero un po’ prima di adottarle come mito fondante della loro muscolare voglia di fare a cazzotti. Noi giornalisti democratici e ventenni di quegli anni, invece, leggevano del Washington Post e subito era mito. Dopo il ’76, con l’uscita del film, ci fu anche un’identificazione fisica. Io a esempio mi identificavo in Carl Bernstein, perché era più a sinistra del suo collega e perché Dustin Hoffman è bassottino come me. Ce n’era bisogno, di miti, in quell’Italia ancora infognata in trame fasciste, in una neomassoneria pervasiva di cui avvertivamo la puzza senza capire bene da dove arrivasse. In quell’Italia del terrorismo rosso talmente autolesionista verso ogni cosa e persona colorata di rosso da farci pensare che invece fosse terrorismo nero. Io lavoravo alla Nuova Sardegna, che era un giornale della Sir di Nino Rovelli. La Sir era un’industria privata che, alla fine di un lungo e complicato giro, viveva di capitale pubblico, era controllata da poteri nei partiti e trasversali ai partiti e in qualche misura a sua volta li controllava. Era un gioco complesso e per gestirne gli aspetti sardi Rovelli si comprò i due quotidiani dell’Isola. Fare la cronaca era quindi un po’ un percorso a ostacoli perché ogni tanto ti imbattevi in qualcuno che con un sorriso da alligatore si metteva a millantare credito nei confronti dell’editore. Ben presto imparammo che questi erano gli impostori, perché chi davvero aveva accesso ai salotti buoni certo non andava a dirlo agli ultimi cronistini arrivati, ma faceva in modo tale da renderti innocuo senza fare scandalo e magari senza che neppure tu te ne accorgessi. Poi nel 1981 ci comprò Carlo Caracciolo, quello dell’Espresso e di Repubblica, il più grande editore italiano di giornali di ogni tempo. E penso anche il più grande in Europa, se “grande” non vuole dire soltanto numeri ma anche un mucchio di altre cose. Da un giorno all’altro capimmo che cosa volesse dire identificare la libertà di stampa con il profitto. Le nuove istruzioni erano che denunciare in maniera motivata e approfondita, e senza reticenze, abusi edilizi nelle coste, malversazioni, inquinamento e tutta questa roba non soltanto rendeva il giornale più libero ma anche più ricco. E infatti in breve, nei successivi contratti integrativi, ci ritrovammo stipendi più alti e arrivammo a sfiorare le centomila copie di venduto. L’aria cambiò da un giorno all’altro, dopo quell’Ottantuno. Fu dei primi giorni un episodio che il direttore di allora neppure mi raccontò e che invece mi disse anni e anni dopo l’altro protagonista di quel fatto. E cioè l’uomo politico che un giorno si fece ricevere dal direttore per lamentarsi di certi miei pezzi. -Caro direttore, vorrei che Filigheddu di questa faccenda non se ne occupasse più: incarichi qualcun altro… Il direttore lo guardò con un sorriso. -Caro X, valuterò la sua richiesta e leggerò con maggiore attenzione i pezzi di Filigheddu su questo argomento. Ma intanto approfitto del nostro incontro per dirle che non mi piace come si costruisce in questa città. Le chiedo di intervenire per sostituire tutti gli assessori competenti all’edilizia e all’urbanistica. Le farò i nomi dei sostituti. Quello capì l’affanculo, salutò e non si fece più rivedere. E io, del tutto ignaro, continuai come prima in una campagna di stampa il cui tema, quando il politico innominato mi raccontò questo aneddoto, ci eravamo entrambi dimenticati. E non voglio dire che con Rovelli eravamo schiavi e solo con Caracciolo diventammo liberi. La vera faccenda ce la spiegò, a noi ex cronistini ventenni di Rovelli e ormai giornalisti trentenni del gruppo Caracciolo, in una notte di quei primi anni Ottanta un direttore editoriale che si chiamava Mario Lenzi, alla presenza del redattore capo Livio Liuzzi, che molti anni dopo sarebbe diventato il più duraturo direttore della Nuova. Era una notte di chiacchiere, di quelle che finisci di lavorare e sei troppo stanco anche per tornare a casa. Liuzzi ci diceva che avevamo avuto un grande culo a finire tra gli investimenti del gruppo perché, oltre alla sicurezza economica, avevamo finalmente scoperto che cos’era la libertà di stampa. Lenzi, uno che aveva costruito più di ogni altro le stimmate e la fortuna dei giornali locali del gruppo, taceva sornione lisciandosi gli enormi cespugli bianchi che aveva al posto della sopracciglia. Infine ci guardò uno per uno e poi si rivolse a Liuzzi. -Livio, questi ragazzi la libertà ce l’avevano già dentro la pancia, anche con la Sir. E riuscivano bene o male a tirarla fuori, altrimenti quella Nuova Sardegna non avrebbe venduto una copia e a noi non sarebbe mai saltato in testa di comprarcela. Voleva dire che i giornali liberi li fanno soprattutto i giornalisti, alla fine. E chi dice “Ah, se non mi avessero tarpato le ali…” di solito è uno che ha bisogno di scuse. E comunque, diventando vecchio, ho trovato anche il coraggio di confessare le icone nascoste della mia vita. E così ora vi dico che nelle sedi fumose del gruppetti politici che frequentavo da ragazzo, insieme a Mao e al Che, in cuor mio desideravo tanto appendere alle pareti anche Omar Sivori e Fred Buscaglione. E nello stesso modo devo informarvi che in fondo poi di Bob e di Carl me ne fotteva un po’ di meno rispetto al grande Humphrey. Ma volete mettere il suo “E’ la stampa, bellezza, la stampa. E tu non puoi farci niente. Niente” de “L’ultima minaccia” con il freddo “Follow the money” di “Tutti gli uomini del presidente”? Suvvia, non scherziamo!
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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