Fiorenzo Caterini. Anche stavolta, anche stavolta la volpe lo aveva fregato. E del resto non poteva stare in giro per la tanca anche la notte. La vacca partoriente era stata azzannata da un branco di volpi. L’avevano devastata, penetrandole persino all’interno, nelle interiora. Il sangue e la placenta erano sparse dappertutto. Sarebbe morta lei e anche il vitello, non c’era scampo. Il pastore pensava alla perdita economica, al duro lavoro sprecato, ai tanti figli piccoli che crescevano e che voleva mandare a scuola, al duro inverno in arrivo. Ma l’immagine della bestia sofferente non era bella neppure per il suo cuore avvezzo alla fatica e alle intemperie. La soppresse per non vederla soffrire oltre. Basta, non ne poteva più di quelle volpi. Stavolta ci avrebbe pensato lui. Disseminò il campo con bocconi di carne avvelenati. La mala bestia non avrebbe avuto vita facile. Una storia consueta di uomini, animali domestici e selvatici della Sardegna interna, che potrebbe essere ambientata in qualunque altra parte del mondo agro-pastorale. Ma quella volta accade qualcosa di notevole, perché era l’anno 1968. La volpe rimase agonizzante tutta la notte, con i corvi a sorvegliarla. Poi arrivò l’avvoltoio monaco, il più grande uccello dell’aria, e incominciò a straziare la carne ancora viva. Attorno corvi e grifoni, in attesa. Poi l’assalto, gli stridi e le lotte per quel brandello di carne. Pochi minuti, e della volpe solo le ossa. La natura pensava a tutto. In pochi istanti tutto veniva riciclato. Ma ancora il ciclo naturale delle cose doveva compiersi definitivamente. Ultimo, in disparte, in attesa, stava uno strano uccello, un avvoltoio dall’aspetto meno goffo del monaco e del grifone ed anzi, con qualcosa nel suo portamento di misterioso e inquietante, forse a causa di quella mascherina nera sugli occhi e di quella sorta di barbetta sotto il collo. Il Gipeto Barbuto. Si avvicinò alle ossa, e iniziò ad ingoiarle ad una ad una, sfruttando una particolare caratteristica dell’esofago, rinforzato con tessuto cheratinoso. L’uccello compiva l’ultimo atto di una natura perfettamente ciclica. Poi afferrò l’osso del bacino tra gli artigli e prese il volo. In alto, più in alto, ad almeno 100 metri e più, per lasciarlo cadere, frantumarsi in una roccia e poter risucchiare il midollo. Ma quella volta l’uccello si sentì mancare improvvisamente, la vista annebbiarsi. Il gipeto, nell’attesa, aveva ingoiato un’esca avvelenata. Era il 1968. Quello sarà l’ultimo volo dell’ultimo gipeto sardo. Ma quello che fino ad oggi non si sapeva, è che l’antropizzazione delle campagne e l’uso dei bocconi avvelenati non sono stati la principale causa di estinzione del gipeto nell’isola, come del resto dell’avvoltoio monaco. La ricerca intitolata “Uomini e Gipeti”, di Umberto Graziano, Ispettore del Corpo forestale, ornitologo per passione nonché apprezzato tassidermista di livello internazionale, basata, in particolare, sui diari di un grande naturalista svizzero, Carl Stemmler, ha potuto chiarire alcuni lati oscuri della storia del gipeto in Sardegna. Una ricerca documentale arricchita da pregevoli foto d’epoca che racconta l’ennesimo episodio di depredazione dell’isola. All’epoca dei viaggi in Sardegna di Stammler, negli anni ’20, il gipeto si era estinto ormai un po’ dovunque in Europa. Nelle Alpi era scomparso verso la fine dell’800, e rimanevano pochi esemplari nelle isole tirreniche. Il Gipeto, per la sua rarità, originalità, maestosità e bellezza, era diventato ricercatissimo in particolare come oggetto di esposizione nei musei naturali. L’ornitologo Helmar Schenk, negli anni ’90, rintracciò oltre 130 gipeti sardi imbalsamati esposti nei musei in giro per il mondo. I musei pagavano bene: nella sua ricerca Graziano espone un listino prezzi approvato dalla Camera di Commercio di un “naturalista” ricercatore di queste prede degli anni ‘20. Quasi duecento specie di animali, dai grandi mammiferi agli insetti rari. Per un gipeto catturato venivano corrisposte 800 lire, una cifra che all’epoca valeva quanto la metà di un guadagno annuo di un pastore. Era la preda più ambita, viva o morta. Tanto per fare un paragone, un falco pellegrino o della regina pagava 75 lire, un cervo o un daino 500 lire. Altrove il gipeto era scomparso, e questo scatenò una ricerca affannosa come pezzo di esposizione pregiato. In quegli anni i pastori sardi si prestarono a quel mercato, fino a ridurre la popolazione a pochissimi esemplari. Si è preferito ammirare un gipeto morto in un museo del continente che vivo in Sardegna. L’ultimo avvistamento datava 1968. Verso la fine degli anni ’90, però, dopo il successo per l’introduzione della specie nelle Alpi, il gipeto fu reintrodotto con tre esemplari anche in Sardegna, come racconta Umberto Graziano, che fu uno dei protagonisti di quella impresa. Nel frattempo le condizioni naturali delle zone interne, anche le più impervie e selvatiche, erano mutate sotto la spinta dell’antropizzazione. Proprio l’aver guastato il ciclo naturale delle cose, paradossalmente, aveva accentuato gli inconvenienti atavici della vita del pastore. Per cui alle volpi si uniscono branchi di cani randagi che sparpagliano le ossa delle carogne, tra l’altro con il rischio della recrudescenza della rabbia e altre malattie. La rottura del ciclo naturale ha trasformato le abitudini di molti animali, che vanno a riempire le nicchie ecologiche lasciate libere. Stormi di cornacchie e di uccelli marini come il gabbiano reale si sono trasformati in spazzini, non trovando più la naturale concorrenza degli avvoltoi. In questo ciclo stravolto delle cose i tre gipeti reintrodotti non ce l’hanno fatta, anche stavolta uccisi da bocconi avvelenati. Anche la storia di questo magnifico uccello racconta di una Sardegna marginale, safari dei paesi europei più ricchi, luogo da esotismo a buon mercato e di sfruttamento. E questa della rapina della biodiversità nell’isola non è certo una novità. Recenti casi di biopirateria di specie floristiche rare ed endemiche lo dimostrano. E che animali, uova per la falconeria, rettili e anfibi, insetti rari e farfalle da collezione fossero da sempre depredati a vantaggio soprattutto del nord dell’Europa, e che alimenta un commercio abusivo di grande valore commerciale, si sapeva. Ma il caso del gipeto barbuto è forse, nella storia, alla luce di questa ricerca, il più tangibile e impressionante di tutti. Il volo del gipeto, il suo veleggiare alto con il suo dispiegamento alare di quasi tre metri, è uno degli spettacoli più belli che si potessero ammirare nella fascia temperata di questa parte di mondo. La sua scomparsa è una metafora della difficoltà che la specie umana ha nel riciclare e stoccare i rifiuti prodotti. Difficoltà che, sarà un caso, proprio la Sardegna ne è testimone con le sue vicende. Ma il gipeto è anche l’indice, un riferimento mentale, il terminale ultimo di un sistema naturale delle cose che funziona perfettamente, di una ecologia in perfetto equilibrio. E troppo spesso dimentichiamo che di quell’ecologia fa parte anche l’uomo.
PS: la ricerca di Umberto Graziano prosegue, insieme alle associazioni che lo sostengono. Si cercano sponsor.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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