“Avendo visto cose stupefacenti, non essere in grado di mettere in croce due parole per raccontarlo in forma di storia”.
Mi sento così, mentre cerco di scrivere questo pezzo. Per cinque giorni ho accompagnato tra le isole un gruppo di “nordic walkers”. Li ha portati qui un vecchio amico, Alberto, che nella sua Milano organizza esperienze per gli amanti di questa disciplina. Per chi non sapesse, il Nordic walking è la camminata con l’ausilio di due bastoni, come quelli per lo sci di fondo. Sono stati cinque giorni intensi, per loro e per me, che pure giocavo in casa.
Il turismo che c’è qui è di due tipi: quello che ti aspetti e quello che non decolla. Alla prima categoria appartengono i barconi che fanno il giro delle isole, le barchette, i mega yachts, le macchine che ad agosto riempiono i parcheggi, i pullman che entrano a Caprera diretti da Garibaldi. Il resto è turismo che non decolla, e io ho passato cinque giorni a chiedermi: “ma perché non decolla?”.
Nella prima escursione, pomeriggio del 28, sembrava di essere in autunno. Il mare era grigio e faceva freddo. Ma è andato tutto bene perché la costa settentrionale di Caprera ha da dire moltissimo, anche con un tempo così.
Il giorno dopo abbiamo macinato 20 km, sempre a Caprera, ma nella parte a sud. Sembrava estate. Al Relitto qualcuno ha fatto il bagno e molti hanno dovuto mettersi la crema protettiva; le birre del Barone Rosso ci hanno aiutato a chiudere in bellezza.
Il punto di non ritorno, quando capisci che un’esperienza ti lascerà il segno, è arrivato il terzo giorno: Razzoli e Spargi. Altra giornata quasi estiva, altri bagni, ma soprattutto “cose”. Avete presente il finale di Blade Runner, quando Rutger Hauer dice a Harrison Ford. “Io ne ho viste, cose, che voi umani non potreste immaginare…”? ecco, Spargi, Razzoli, Caprera e sorelle varie, fanno esattamente questo effetto, anche se le conosci da quarant’anni e più: rocce, fondali, relitti, rifugi preistorici, profumi incredibili, figuratevi che razza di imprinting possono lasciare su chi arriva da un posto come Milano, modernissimo e iperconnesso. E intanto quella domanda continuava a scavarsi la tana: “Perché non decolla?”.
Quarto giorno, ancora Caprera. Giro a Candeo e pranzo al sacco in un bosco. Giornata nuovamente autunnale, da fine Novembre più che da inizio Ottobre. Ma poi a Cala Cuticciu li ho portati lo stesso. Il ponente è molto forte, ma le raffiche davanti alla spiaggia arrivano da sud. È un fenomeno strano. Il vento scavalca la cresta dell’isola e si tuffa in picchiata sul mare dopo un volo di 200 metri. Quando tocca l’acqua, si frange in tutte le direzioni e le spiagge di Cala Cuticciu vedono arrivare quest’aria da sud. Di fronte alle spiagge, in mezzo al mare, si formano vortici di polvere bianca: è l’aerosol provocato dalle raffiche del vento. C’è il sole, è forte ma mentre gli occhi dicono “Caraibi”, il vento che fischia suggerisce “tempesta”. Tutti sembrano felici di essere lì. Il momento ideale per continuare a chiedersi: “Perché?”
Spostarci dalla spiaggia più bella al punto più alto dell’isola, e guardare da sopra quello che un’ora prima stava attaccato ai piedi, non produce risposte.
L’ultimo giorno è dedicato a La Maddalena, 12.000 abitanti, 20 kmq e 250 anni di storia, ultimo scampolo di un’esistenza che risale oltre il buio del Neolitico. La Maddalena è un’isola su cui la vita scorre, più o meno bene, per tutto l’anno. È fatta per viverci, è un campo base da cui si parte per terre più blasonate, Spargi, Santa Maria, Budelli, dove vivere è più difficile o quasi impossibile. Anche lei offre paesaggi che lasciano a bocca aperta ma, essendo un’isola-paese, fa un altro mestiere. Per esempio, come ogni comunità umana, produce storie. Sono gustose o tristi, alcune stanno sulla bocca di tutti, altre sono state raccontate poco. Storie di soldati stranieri sepolti in riva al mare, storie di bastimenti in fiamme (a proposito di Blade Runner) e di galline miracolosamente scampate al loro naufragio, e ancora, storie di pescatori di frodo che diventano leggenda, di leggende che diventano romanzo e poi sceneggiatura e infine film d’autore.
Ora quella domanda ha un altro senso. Il turismo che tutti si aspettano (quello del casino, e ben venga il casino) non cerca storie, cerca soprattutto cose: mare, spiaggia, estate, tramonto, aperitivo, abbronzatura, gente, musica, pesce arrosto, vino, barca. Eccetera.
Nel mondo che vive dodici mesi all’anno, però, le cose sono sempre collegate tra loro; non potrebbero esistere se non così e lo spazio tra le cose non è mai vuoto: contiene relazioni. È di questo che son fatte le storie: cose e relazioni tra cose. Storie anche piccole, certo, ma sempre storie: il tramonto e l’aperitivo; il pesce arrosto e il vino; la gente e la musica; il naufragio e le galline. E siccome questo gioco funziona ad incastri, le storie si possono collegare tra loro facendo nascere altre storie. A furia di combinazioni, biforcazioni e collegamenti, un mondo riproduce sé stesso nelle storie che ha fatto nascere.
Il turismo che non decolla ha bisogno di questo: raccontare storie, mostrare gli intrecci, scoprire l’anima e fare in modo che la gente si senta come a casa, che si ri-conosca in un territorio mai visto prima, che all’improvviso diventa familiare.
Una storia di mare e barche, allora, non è solo una storia, ma diventa “territorio raccontabile”.
Dobbiamo solo ricordarci che spetta a noi che stiamo qui dodici mesi, raccontare e ascoltare.
Tocca cercare l’invisibile tra le cose, insomma, quello che le collega.
Il resto è sempre stato qui.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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