Sono stati giorni drammatici quelli appena trascorsi. L’attentato, anzi il doppio attentato di Parigi da una parte (la nostra) e l’evolversi del conflitto in Nigeria dall’altra.
Della prima non c’è da puntualizzare niente. La copertura mediatica relativa alla strage “Charlie Hebdo” è stata di dimensioni gigantesche e dopo tre giorni di diretta con un’overdose di informazioni e punti di vista, i fatti li conosciamo tutti, purtroppo.
Del gruppo terrorista jihadista Boko Haram che usa le bambine shahid come strumento di guerra per gli attentati contro i civili ne sappiamo, ahimè, molto meno.
L’organizzazione, nota come Gruppo della Gente della Sunna, nasce come movimento clandestino di matrice islamica fondamentalista, vuole imporre la sharīʿa. Per la propaganda religiosa e il Jihad il gruppo recluta gli adepti jihadisti nei luoghi dove si respira pesante l’aria della miseria, della povertà, del disagio sociale e della frustrazione. L’obiettivo è dichiarato nel nome stesso del gruppo: Boko Haram, libera interpretazione dalla lingua hausa, che significa “l’educazione occidentale è sacrilega”. La loro notorietà inizia dopo le violenze religiose e gli attacchi alle chiese cristiane nel nord della Nigeria nel 2009. Eravamo più o meno rimasti fermi all’8 marzo del 2012 quando mentre si tentava la liberazione degli ostaggi, un gruppo scissionista di Boko Haram, giustiziò l’ingegnere italiano Franco Lamolinara e il britannico Christopher McManus, rapiti un anno prima. Non che dal 2012 ad oggi gli squadristi di Boko Haram si siano fermati. Hanno continuato le loro sanguinarie scorribande, ma solo recentemente, in concomitanza con i gravi fatti parigini e a poco meno di cinque settimane dalle elezioni presidenziali e legislative in Nigeria, i terroristi stanno accrescendo la loro ondata di terrore sulle città e sugli abitanti del nord est del Paese, costringendo all’esodo migliaia di persone. Tra il 3 e il 7 gennaio Boko Haram fa strage nella città nordorientale di Baqa con almeno 2000 morti. Il 10 gennaio il gruppo imbottisce di esplosivo una bambina di 10 anni che saltando in aria provoca 19 morti e 18 feriti al mercato di Maiduguri.
L’11 di gennaio mentre Parigi è la capitale del Mondo, come dice Hollande mentre saluta i 45 Capi di Stato arrivati nella capitale francese per marciare contro il terrore insieme ad altri 2 milioni di persone, Goodluck Jonathan, il presidente uscente della Nigeria resta ad occuparsi dei fatti di casa sua sempre più simili ad un vero e proprio genocidio.
Due giorni fa infatti l’orrore senza fine prende forma ancora una volta attraverso le vite di altre due innocenti bambine kamikaze, fatte saltare in un mercato di telefonia mobile nella cittadina di Potiskum. Tre morti e 19 feriti, il bilancio. Sottolineo fatte saltare e forse è superfluo precisare che due bimbe così piccole non possono in nessun modo avere coscienza di quello che stanno andando a fare, si da per scontato che a quell’età non lo possono sapere e che sono vittime di menti assassine e crudeli.
Ora, andando oltre qualsiasi analisi di matrice religiosa, politica, economica etc. etc., impazza sui social la denuncia che vede nella diffusione delle due agghiaccianti notizie (la strage di Charlie Hebdo e il genocidio nigeriano) l’utilizzo di due pesi e due misure.
Sui fatti nigeriani, il poco che si è scritto, va detto, è il poco che sappiamo. Ovviamente quel “poco”, viene trattato dai media a propria discrezione, ma resta molto poco.
Sembrerà strano ma nel mondo globalizzato che noi conosciamo, esistono ancora porzioni blindate sul profilo mediatico. A volte i perché si nascondono dietro soluzioni tutto sommato banali alle quali non pensiamo.
In Africa la diffusione delle notizie viaggia con la velocità con cui qui da noi si andava nel secolo scorso: le informazioni e le immagini arrivano dopo qualche giorno. I corrispondenti delle grosse agenzie coprono talvolta due o tre stati in territori sconfinati difficilmente raggiungibili. Questo perché il volume delle news che il mercato dei media richiede da quei paesi soddisfa pienamente lo scarso interesse del pubblico. In casi estremi come per esempio la Cina e la Corea del Nord l’informazione è monopolio del Governo il che significa che la stampa estera ha difficile accesso ai luoghi e agli avvenimenti e quando succede il flusso viene filtrato e controllato dalle agenzie governative.
Tornando in Africa, Paesi come la Nigeria, vivono ancora in totale arretratezza economica e non ci vien difficile capire com’è che ancora non si è sviluppato il digitale. Fenomeni come quelli dei social network o del YouReport, non esistono proprio a differenza di quello che è successo invece durante la “Resistenza Araba”, dove il flusso di informazioni è passato anche e in larga parte attraverso i civili.
Queste ultime notizie di inizio anno ci sono arrivate attraverso un unico canale che è quello dell’agenzia Reuters. Solo oggi veniamo a conoscenza di nuovi particolari riguardo la situazione del massacro di Baqa. A due giorni dal folle attentato delle bambine imbottite di esplosivo sono inesistenti foto e video e a fatica trapelano indiscrezioni da qualche testimone.
La Nigeria è fanalino di coda per libertà di stampa e nelle classifica mondiale detiene il posto 112. È uno dei paesi più pericolosi al mondo. Ma è molto probabile che la sua posizione sia stata determinata in eccesso e non in difetto rispetto alle effettive opportunità di libero movimento. Gli inviati e i corrispondenti locali lavorano in condizioni tecniche e logistiche decisamente differenti rispetto a quelle sulle quali hanno potuto contare i loro colleghi in quel di Place de la République, Dammartin-en-Goele e Porte de Vincennes. Non si avvalgono dell’impatto emotivo di una diretta e lavorano in condizioni di sicurezza personale molto scarsa .
Se è bene che il lettore abbia sempre un occhio critico relativamente alle notizie che la stampa propone, a volte questa criticità deve aiutare a calibrare i giudizi sulle responsabilità. Chi fa il reporter in paesi di crisi dove la tensione sociale è altissima e la vita è molto dura lo fa anche spinto dalla voglia idealista di fare bene il proprio lavoro: quello di raccontare il mondo con onestà e coraggio e soprattutto come meglio può.
P.S. la foto a corredo dell’articolo, per tutte le ragione di cui sopra, non è una foto di cronaca ma si riferisce ai parenti delle 276 ragazzine rapite nell’aprile del 2014 da Boko Haram.
Giornalista, editorialista, opinionista, turista, altrimenti non si spiega come possa collaborare da sempre con gruppi editoriali, festival letterari, teatri, istituzioni. A tempo perso ha imparato a fare l’ufficio stampa, la blogger, l’insegnante, la PR, l’organizzatrice, il mestolo di una grande pignatta in cui sobbollono tendenze di comunicazione, arte, moda, politica e antipolitica. Questa scrive, forse bene ma non di tutto, ed entra a far parte della redazione di SARDEGNAblogger perché se la sa tirare.
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