Io di Vialli ricordo le lacrime. Non quelle dell’abbraccio a Mancini dopo l’inopinato titolo europeo di un anno e mezzo fa. No, altre lacrime.
E’ stato uno dei miei calciatori preferiti di sempre e, da juventino quale incrollabilmente sono, potrei ricordare la sua commozione nell’alzare la coppa dalle grandi orecchie a Roma, quel giorno di fine maggio del 1996.
Oppure certi gol in rovesciata, distillati di tecnica e della potenza atletica acquistata nella seconda parte della sua doppia vita calcistica.
Ma io di Vialli ricordo le lacrime al funerale di Andrea Fortunato, quel pianto liberatorio, pubblico, dirompente durante l’orazione funebre che la squadra aveva affidato a lui.
Era difficile vedere un calciatore piangere, se non di gioia dopo un trionfo sportivo o di delusione dopo una importante partita finita male.
Era difficile vedere un eroe sportivo, un vincente come lui, dare libero sfogo al dolore, al senso della perdita accecante, al di fuori della contesa agonistica. Un pianto prima sommesso, poi sempre meno frenato, infine di irrimediabile disperazione. Io Vialli l’ho sempre associato a quel pianto.
E, ripensandoci, penso sia significativo. Perché comunica la debordante personalità di un uomo la cui statura sapeva sovrastare anche la fama dell’atleta di primissima grandezza, un centravanti tra i più forti di sempre del calcio italiano. Lo capimmo leggendo la caparbietà di quel gol alla Spagna, agli Europei del 1988, quel gol ricordato per il “Vialli-Vialli-Vialli” di Bruno Pizzul, corrispondente calcistico del “Cova-Cova-Cova” di Paolo Rosi, cantore di quella straordinaria impresa podistica datata 1983.
Vialli fu rockstar e personalità fuori dagli schemi, ma dotato di troppa intelligenza per superare quel limite segnato dal rispetto per sé stessi. Una volta, ad un intervistatore che gli chiedeva come dovesse essere la sua donna ideale, rispose così: “Signora in cucina e puttana a letto”.
Allora certe cose non destavano scandalo e il politicamente corretto non ci ossessionava: Vialli sapeva di potersi permettere un’uscita così spericolata, anche se portiere non è mai stato. Ai mondiali del ‘90 venne oscurato dall’effimera stella di Totò Schillaci e, per giunta, sbagliò un calcio di rigore in una partita del girone eliminatorio. Suo commento: “Ho sentito piovermi addosso sessanta milioni di vaffanculo”.
Vialli aveva ironia, argomenti e capacità logica per contrastare giornalisti e critici, come il Roberto Bettega che contestava l’uso del sostantivo “demiurgo” a Gianni Brera.
Ma era anche un uomo profondamente umile e desideroso di migliorarsi. Un’altra immagine nitida e indimenticabile che conservo nella memoria è il Gianluca seduto al banco di scuola, per l’esame di maturità che aveva scelto di affrontare da privatista. Era uno dei più famosi calciatori d’Europa, ma volle colmare quella lacuna sottoponendosi alla valutazione di una commissione, come un qualunque altro studente. Credo fosse ancora alla Sampdoria, ma da quel momento per me fu un vero idolo. Come idolo era stato Gaetano Scirea, che l’esame di maturità per il diploma magistrale lo sostenne l’anno dopo essere diventato campione del mondo.
Vialli fu vincente alla Sampdoria, fu vincente alla Juventus. Vinse da rapidissima gazzella riccioluta che saltava l’uomo e tirava in porta, vinse da muscoloso uomo d’area col cranio rasato. Arrivò in bianconero in un suo momento di crisi personale, quando molti lo davano per finito. Ne uscì in modo superbo, tornando ai vertici, imponendo il suo carisma di uomo di superiore intelligenza. Nel primo anno di Lippi, la Juventus partì in testa ma ebbe poi un momento di crisi, verso metà campionato. Dopo una sconfitta che sembrava preludere ad un crollo, Vialli si presentò davanti ai cronisti per rilasciare questa lapidaria dichiarazione: “Garantisco ai tifosi juventini che vinceremo lo scudetto”. Erano parole pesantissime, era assumersi una responsabilità più che gravosa. Non ho mai sentito nessun calciatore esporsi tanto. Stava assumendo un impegno non per sé, ma per tutta la squadra che rappresentava: la sua leadership glielo permetteva. Ebbe ragione lui.
Fu uno dei primi a scegliere la strada britannica, a fine carriera.
La misura, la spiritualità con cui ha affrontato l’ultima prova sono un esempio. Sapeva di non poteva vincerla, lo si intuiva dalla scelta delle parole. Ma si capiva anche che stava imparando tanto, traendo lezioni importanti da quel terribile colpo della sorte.
Consentitemi, infine, un ricordo personale. Metà anni novanta, spiaggia di Romazzino, Costa Smeralda. Vialli prendeva il sole nei lettini dell’hotel assieme alla sua fidanzata di allora. Pochi passi più avanti, sulla sua sdraio, sedeva Sebastiano, mio cognato, che ha la sindrome di down. Vialli si alzò per andare a fare il bagno e, vedendo Sebastiano, gli si avvicinò.“Vorresti fare una foto con Vialli?” Sebastiano, cui del calcio non è mai importato nulla, rispose persino scocciato: “No!”.
Vialli prima ne fu stupito e subito dopo scoppiò a ridere. Come uno abituato a vincere, ma che sapeva perdere.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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