Da qualche parte, a casa dei miei, ci deve pur essere una cartella con degli articoli di giornale che ritagliavo dai quotidiani del tempo, quelli che più mi piacevano e non volevo dimenticare. Poi la vita va come va e di quella cartella ricordo con certezza solo due articoli. Uno raccontava musica e vita sregolata del jazzista Charlie Parker, l’altro metteva a confronto Vialli e Schillaci. Era l’estate del 1990 ed io ero in mezzo al guado dell’esame di maturità. C’erano i mondiali in Italia e gadget di “Ciao” ovunque, mentre Gianna Nannini e il neoleghista Edoardo Bennato ci ammorbavano col refrain “Notti magiche, inseguendo un goal”.
Gianluca Vialli era uno dei giocatori più rappresentativi di quella nazionale. Non solo per forza tecnica, ma anche per personalità e carisma. Aveva 26 anni ed era all’apice della carriera. C’erano Zenga, Ferrara, Maldini, Bergomi, Ancelotti, Baggio e Donadoni – una miscela di forza e talento soavemente esplosiva – ma Vialli era uno dei top player maggiormente indiziati di essere tra i possibili protagonisti del torneo. A me Vialli piaceva tanto. Mi piaceva anche perché era l’eroe di un tempo in cui i calciatori erano ancora più vecchi di me. Lo vedevo come un lottatore irriducibile, ma anche come un centravanti capace di scartare l’avversario e tirare in porta, prima che la sua trasformazione fisica lo rendesse un ariete da sfondamento. Poi venne il mondiale e Vialli sembrò essersi liquefatto e ridotto all’ombra di se stesso. Non ne imbroccava una. In non mi ricordo quale partita del girone sbagliò pure un calcio di rigore. Negli spogliatoi, quella sera, disse di essersi sentito scaraventare addosso sessanta milioni di vaffanculo, un attimo dopo l’errore dal dischetto.
Mentre Vialli arrancava, emergeva dal mucchio della panchina un quasi sconosciuto siciliano dagli occhi spiritati. La Juventus lo aveva importato l’anno prima dall’Isola di Camilleri e, già alla prima stagione, aveva segnato una caterva di gol. Schillaci entrava a partita in corso e segnava. Sempre. Divenne titolare e la sua cometa brillante oscurò in breve la stella di Vialli.
Fu in quei giorni che io ritagliai l’articolo, da non mi ricordo quale quotidiano. Al diciannovenne che ero, quelle righe sembrarono rivelare chissà quale assoluta verità. Lo ritagliai perché mi piacque come era stato scritto, anche se il ragionamento mi colpì allo stomaco come una improvvisa disillusione. L’assunto del giornalista era che Vialli era l’apparenza, Schillaci l’essenza. C’erano tutta una serie di prove che sembravano dimostrarlo. Vado a memoria. Schillaci girava in Lancia aziendale fornita dalla Juventus, Vialli su una monumentale Saab turbo; Schillaci passava le vacanze sulla popolare spiaggia di Mondello, Vialli nella villa con spiaggia privata a Quarto; Schillaci rispondeva al telefono di casa personalmente, in casa Vialli si attivava la segreteria telefonica con la voce di Pizzul che urlava “Vialli, Vialli, Vialliiii”, frammento di una telecronaca tratta da un gol al quarto di finale degli europei del 1988. Tutto questo bastava a distinguere il vero uomo dal bluff.
Sono passati gli anni, la stella di Vialli ha ripreso a brillare e la cometa di Schillaci si è spenta presto, dopo il primo e accecante bagliore. Anni dopo, ho capito quanto quell’articolo, smarrito in qualche cassetto polveroso, mi avesse indicato una direzione sbagliata. Non importa se nasci povero o ricco, importa quanto sei capace di correre. Il calcio, per via di questo, è un democratico esempio di uguaglianza e meritocrazia: non importa come ti chiami, importa molto più quanta voglia hai di faticare e non esiste talento che autorizzi l’indolenza. Non esistono maglie, famiglie, genie. Esistono uomini. Vialli queste regole le ha applicate alla sua vita anche quando è uscito dal campo. Gianluca Vialli è quel signore che, ormai adulto e più ricco di quanto fosse per privilegio di nascita, volle mettersi a studiare per conseguire un diploma. E lo fece sedendosi assieme a tanti studenti molto più giovani di lui, ben diversamente da qualche presunto campione di oggi che la maturità l’ha scansata, pur essendo nei tempi.
Di Vialli ricordo una fugace immagine, dagli archivi televisivi degli anni novanta. Era il giorno dei funerali di Andrea Fortunato, il terzino della Juventus morto giovanissimo di leucemia. Tutta la squadra era riunita in chiesa, in un quadro che pareva un violento ossimoro: atleti che s’inchinavano alla morte per malattia, atleti straripanti di salute che salutavano per sempre uno di loro. Ricordo il pianto disperato di Vialli, perché mi sembrò allora strano che un semidio come un calciatore potesse versare lacrime amare come quelle di un comune mortale.
Come si deve dimostrare sempre tutto sul campo, così si deve dimostrare tutto anche di fronte alle sfide della vita. Quella montagna di muscoli guizzanti, tante volte ammirati nell’atto plastico della sforbiciata sotto rete, è stata attaccata dal male. Il coraggio e la serenità con cui l’uomo Gianluca Vialli ha raccontato la sua malattia mi sono sembrati, ancora una volta, degni di un campione di razza. Un campione che non sottovaluta l’avversario e sa che non si può gridare vittoria fin quando “arbitro non fischia”, come avrebbe detto il suo mister Vujadin Boskov. Un campione che ha deciso di vivere la vita giorno per giorno, in attesa del responso, dandosi gli obbiettivi minimi di un qualunque altro comune mortale: vedere le figlie sposate, sopravvivere ai genitori. Un campione che non ha nascosto di aver imparato a praticare la meditazione, arte rara che sembrerebbe lontana una vita da un celebrato ex calciatore. Gli uomini come Vialli non si giudicano dalla nascita o dalle pazzie giovanili, ma dalla vita e dalla capacità di dare un senso alle sue imprevedibili e fantastiche evoluzioni.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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