Partimmo all’alba, in una mattina che non era ancora primavera ma neppure era inverno. L’aria era grigia, non faceva caldo ma neppure freddo e tutto era incerto: se si guardava il cielo, nessuno avrebbe saputo indovinare pioggia o sereno per il resto della giornata. Il pullman era davvero grande, che dal capo davanti si faceva fatica a vederne la coda. Dirigendomi verso il mio posto, un passo alla volta per la gran folla di viaggiatori che intralciava la mia avanzata, mi accorsi che le prime file delle poltrone erano tutte occupate da vecchi, vestiti in modo signorile. Osservavano il giovane autista con occhi a volte severi, altre volte compiaciuti, con la stessa curiosità interessata dei pensionati attorno ai cantieri pubblici. L’autista era un giovanotto sulla quarantina, dalla parlantina sciolta e con la battuta pronta, con un’opinione su tutto. Gruppi di immigrati, sparpagliati a caso, stavano diluiti nel ventre enorme dell’autobus, confabulando tra loro in incomprensibili idiomi. Mi sistemai a metà, almeno così mi sembrò perché non avevo chiare le dimensioni del pullman. In mezzo a gente con espressioni torve, che non riuscii a classificare in un preciso gruppo sociale. Meccanici e panettieri stavano in mezzo ad avvocati, impiegati pubblici, pensionati e militari in congedo: avevano in comune il cattivo umore. Sapevamo tutti che il viaggio sarebbe stato lungo, ma fin dal primo scorrevole tratto in autostrada sentivo il borbottio di un numero via via crescente di passeggeri. Ad alcuni non piaceva l’andatura decisa dall’autista, per alcuni era troppo veloce e per altri troppo lenta. Qualcuno, segnatamente un vecchio con la barba canuta e un tremolio su tutta la persona, provò a spiegare che col sole basso, dritto negli occhi, per l’autista era difficile mantenere un ritmo regolare, ma nessuno prese in considerazione quelle parole e, anzi, i più aggressivi canzonarono il vecchio, sfottendolo per l’età. Altri si lamentavano del cattivo odore dentro il bus, al che il vecchio tremante spiegò che era naturale, visto che eravamo in tanti in uno spazio chiuso. Un giovanotto si alzò, raggiunse il suo posto e gli parlò appoggiando la punta del naso contro la sua: “È inutile che cerchi di giustificare tutto quel che accade qua dentro, lo sappiamo bene che lei fa parte della ditta proprietaria del pullman. Ma non può venirci a dire che questi neri tra noi non puzzino, perché è chiaro che questo odore di merda arriva da loro”. Tornò a sedersi, salutato dagli applausi scroscianti di quelli che gli stavano attorno. Dopo un paio d’ore di cammino, mi alzai per andare al gabinetto, una porta a pochi passi dal posto di guida. La mia pipì precipitava rumorosamente nel cesso descrivendo un arco perfetto, ma nonostante il fragoroso orinare e le spesse pareti che mi isolavano dal resto del pullman, sentivo distintamente l’autista del pullman parlare a raffica, senza mai tacere, rispondendo a tutti, a volte in maniera insolente. Sembrava che la velocità dell’autobus corrispondesse al ritmo delle sue parole, che tutti noi dovessimo procedere alla velocità dei suoi pensieri. Provai a guardare fuori dal finestrino, appoggiandoci sopra il naso, ma quel grigiore incerto da giornata insipida non era cambiato. Entrando in bagno, avevo incrociato gli sguardi dei vecchi che stavano attorno all’autista: parevano sereni. Uscendone, colsi mascelle tirate e espressioni infastidite.
“Ma come, si ferma adesso?” Un altissimo giovanotto dall’accento romanesco si alzò di scatto dal suo sedile, quando fu chiaro a tutti che quell’improvviso rallentamento preludeva ad una sosta imprevista. Da una mezz’oretta avevamo lasciato l’autostrada e l’autobus caracollava goffo tra strade di montagna, sempre più strette, in bilico su strapiombi da vertigine. La piazzola della stazione di servizio era piccola a il nostro mezzo la occupò tutta, non prima di una serie di faticose manovre perché l’autista potesse parcheggiarlo in maniera civile. L’autista ci tranquillizzò, chiedendoci di stare sereni e di consumare la colazione: erano da poco passate le nove e una pausa era necessaria. Il finimondo esplose tutto assieme. L’autista ci radunò davanti alla fiancata lato guida del pullman e ci chiese di votare la sua proposta: i vecchi che occupavano i sedili alle sue spalle sarebbero stati retrocessi nelle ultime file perché, questo riteneva il pilota, le loro insistenti richieste di prudenza e attenzione finivano con rallentare la marcia e avrebbero ritardato l’arrivo a destinazione. Ci fu un parapiglia e la discussione si protrasse per un’oretta abbondante, così tirata che alla fine si ritrovarono l’un contro l’altro anche quelli che dovevano essere dalla stessa parte. Solo i gruppetti di immigrati si disinteressarono alla contesa, attardandosi al bar. Li si sentiva cantare e ridere, dal piazzale animato dalla discussione. L’autista fu categorico: “Se non accettate di fare come dico io, non guido più”. “Magari!”, rispose un signore dai vaporosi capelli ricci, che cercava di camuffare il sovrappeso con un abbigliamento giovanile. “Magari!” gli fece eco metà dell’autobus. Si votò. E i vecchi vinsero, guadagnandosi il diritto a stare a tiro di volante. L’autista cercò di far finta di nulla, ma subito gli venne ricordato l’impegno a lasciare la guida, se la sua mozione fosse stata bocciata. L’amministratore della ditta proprietaria del pullman era un vecchio che avresti detto imbalsamato. Perfettamente pettinato, sillabava le parole pronunciandole con estenuante attenzione. Viaggiava sulla corriera tutti i giorni, condizione prevista nel suo contratto di assunzione, anche se ogni tanto si addormentava o saliva coi pensieri sulle nuvole, dimenticando il suo ruolo. Quella volta fu netto. Gli bastò l’eloquente cenno dell’indice al naso per vietare altre chiacchiere all’autista il quale, raccolti i generi personali sparsi attorno al sedile, andò via borbottando, senza salutare, rifugiandosi nel bar della stazione di servizio. “Resta a terra, vittima della sua stessa presunzione”, chiosò il signore dai vaporosi capelli ricci. L’amministratore chiamò alla guida un signore occhialuto che sembrava il suo clone, tanta era la sua prudenza prima di emettere un fiato. Quando il nuovo guidatore stabilì che la pausa fosse finita e invitò tutti a salire a bordo, l’altissimo romano che aveva contestato la sosta chiese l’attenzione degli altri passeggeri e, afferrato il microfono, abbozzò un comizio. “Non vi siete chiesti per quale motivo ci siamo fermati in questa area di sosta, piccola e scomoda, con le paste surgelate al bar e i bagni sporchi, anziché all’ultimo autogrill dell’autostrada?”. Silenzio dal pubblico, studiata pausa dell’oratore per accrescere l’attesa della risposta. “Ma davvero non lo sapete? L’avete vista la bionda con gli occhi chiari alla cassa del bar? I maschi l’hanno notata di sicuro perché non passa inosservata, con quelle forme. Ecco, quella è l’amante dell’autista che abbiamo appena cacciato. E ora, chiedetevi ancora perché ci siamo fermati qua, in questo postaccio, anziché all’autogrill. L’autista aveva un interesse preciso. E ora mi rivolgo a lei, caro amministratore del pullman: ma possibile che le sfuggano questi traffici?”. Il brusio crebbe, decibel dopo decibel, divampando presto nella contestazione aperta. Ma il presidente si era appisolato e non rispose. Un vitellone con la barba di tre giorni, il fiato puzzolente di sigaretta e la felpa macchiata di polenta taragna si fece largo tra la folla e soffiò il microfono di mano al romano, reclamando a sua volta attenzione. La ottenne. “Lo sapete perché gli immigrati che viaggiano con noi sono ancora al bar, mentre noi qui ci scanniamo?”. Intervenne una signorina bionda dagli occhi gelidi: “Perché se la fanno con la cassiera?” Tutti risero, anche il vitellone con la felpa. “No, perché per gli immigrati la colazione è gratis, era compresa nel biglietto, mentre noi abbiamo dovuto pagarla. Non solo dobbiamo sopportare il loro odore da bestie, ma pure i loro privilegi”. Posato il microfono, liberò un fragoroso peto che giustificò come atto di dissenso politico. Si levarono urla, uno strepitare generale svegliò il presidente del pullman, che dovette farsi spiegare per bene quel che stava accadendo dall’autista. Una dozzina di energumeni si precipitarono fuori dall’autobus, irrompendo nel bar. Si udì un gran frantumarsi di vetri, altre urla, lo slogan “Prima gli italiani!”, un pianto, poi gli energumeni risalirono sul pullman con un carico di birra, panini e hot dog freddi razziati dalla cucina. Gli immigrati si sedettero tutti assieme, non più a gruppetti sparsi, come un gregge impaurito. Il viaggio riprese in ritardo, perché all’appello mancava uno dei passeggeri. Lo andarono a cercare e lo trovarono mentre consolava la bionda titolare del bar, ancora paralizzata dalla paura. Tornò a bordo al piccolo trotto: era un vecchio con la faccia tirata, il parrucchino nero pece e un doppiopetto blu fuori luogo. “La figa è la figa”, dichiarò per giustificarsi, “la vita è breve e bisogna godersela”. La corriera si divise tra favorevoli, contrari e indignati, comunque venne subito accerchiato dai tanti che volevano sapere se la bionda ci stava. Il pullman lasciò il piazzale. L’atmosfera a bordo si surriscaldava ogni minuto di più, come una curva ultrà ad un derby. La strada continuava a impennarsi sotto le ruote, i precipizi sempre più profondi e spaventosi, l’autista sempre più silenzioso. Quando furono al passo, in cima alla montagna, una sussiegosa bruna dall’impeccabile tailleur propose una sosta per un breve raccoglimento davanti al monumento che commemorava i caduti della lotta partigiana, che qui avevano combattuto – disse, con la voce incrinata – “valorosamente, per la nostra libertà”. Venne subissata dai fischi e accusata di aver trovato un nobile pretesto per scendere a far pipì. “Questi comunisti, sempre col vizio di spacciare i loro comodi per ragion di Stato”, polemizzò il vecchio liftato col doppiopetto, raccogliendo parole di approvazione. Ma l’autista si fermò lo stesso, scatenando una rivolta a bordo. Cercò di sedarla spiegando che non era sicuro di riuscire ad arrivare a destinazione col carburante che aveva nei serbatoi, quindi serviva un rifornimento. Inoltre, la temperatura dell’acqua era salita parecchio e serviva un controllo immediato, perché il rischio di restare a piedi era concreto. Anziché calmarli, li ebbe tutti contro. “Come si fa a non essere sicuri di quanto carburante serva e che il pullman possa arrivare a destinazione”, chiese, sarcastico, il vecchio col doppiopetto. “È da dilettanti, vergognatevi!”. Venne applaudito da tutti, per un momento anche dal presidente del pullman, che era stato svegliato dal battere di mani e si era aggiunto all’ovazione, pur non avendo capito un’acca. Poi però il vecchio dal doppiopetto annunciò di voler pagare l’aperitivo a tutti e tutti lo seguirono, come se la rabbia fosse sbollita davanti alla prospettiva di una bibita fresca. In realtà, al vecchio col doppiopetto avevano detto che le bariste del rifugio in cima alla montagna erano una meglio dell’altra e lui voleva prenderne visione personalmente. Raccontò la barzelletta del tipo che di cognome faceva Merda, lasciò la mancia a tutte le ragazze al bancone e da due di loro ebbe il numero di telefono. Quando tutti uscirono dal rifugio, trovarono l’altissimo romano che discuteva animatamente con il presidente del pullman e l’autista. Gli altri passeggeri vollero esserne messi a parte. “Non c’è nessun bisogno di fermarci per controllare motore e carburante, è solo una scusa per costringerci a pranzare qua a spese nostre, dal momento che i meccanici ci metteranno del tempo e si farà tardi. E a me risulta che della società di questa stazione di servizio faccia parte anche il padre dell’autista che abbiamo cacciato prima. Lo volete capire che è tutto un magna magna?” “Come ti permetti?”, si sentì urlare alle spalle del capannello. Era l’autista cacciato una stazione di servizio prima. “Che combinazione! Cosa ci fa lei qui?”, ribatté sarcastico l’altro. L’autista mostrò il biglietto: “Viaggio da passeggero, ho pagato come voi”. E iniziò a sussurrare consigli e suggerimenti all’autista in carica, impegnato nel convincere la folla sulla necessità delle verifiche tecniche. Ma non riuscì a persuadere nessuno. La biondina dagli occhi gelidi propose di trasferirsi tutti a piedi alla vicina stazione e proseguire tutti in treno. “Sulle rotaie, con un macchinista che si limita a controllare, non ci saranno disordini”, argomentò. Un drappello di ammutinati minacciò di prendere il controllo del pullman se non fosse stato eletto, democraticamente, un nuovo guidatore. Il presidente del pullman si pettinò, poi si arrese e accettò. La maggioranza dei passeggeri acclamò come nuovo autista un trentenne che, pur non avendo mai guidato un pullman, era un asso alla playstation, precisamente campione italiano in un gioco che simulava la conduzione di un autobus a Napoli, con fermate, auto parcheggiate in doppia fila e tutto il resto. Fu alla seconda curva che capì che i comandi del volante e quelli del videogioco non coincidevano. La corriera s’intraversò, si capovolse e quelli che come me sopravvissero al primo impatto videro, a testa in giù, prima il vuoto, poi boschi fitti sui fianchi della montagna e infine il fondo del burrone e della vita avvicinarsi alla velocità della luce, in quel 4 marzo del 2018.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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