È la solita poltrona di sempre, quella che ospitava il culo mio, di mio padre e di mia madre già quarant’anni fa, in un salotto diverso, di un’altra casa, di un’altra città, di un’altra famiglia, di un’altra vita. Già soltanto per la lunga catena costituita da generazioni e generazioni di acari che hanno popolato e popolano questa tappezzeria (salvo forse per saltuarie catastrofi provocate dal passaggio letale di appositi spray), c’è un motivo in più per sentirsi a casa quando torno. Solita poltrona che guarda il cielo sopra una riga di mare su cui suona adesso il corno di una nave in arrivo al porto turritano. Solita finestra opacizzata dal sale di migliaia di grecali e maestrali in tormenta sui miei balconi e sulle facciate degli edifici di questa città. Mio padre al piano di sotto certamente seduto a capotavola davanti al pc a leggere notizie, qualche volta a studiare scale per chitarra e ukulele ed accordi dissonanti, talvolta con un libro di mare fra le dita, tutto solo, perché la sua dolce moglie è già partita per una nuova giornata di scuola. La lavatrice prepara qualcuno degli abiti che dovrò portare via con me, di nuovo in partenza il prossimo venerdì, tre giorni appena. Trovo difficile abituarmi all’idea di fermarmi eppure è faticoso partire, ancora. Faticoso si, perché non c’è mai partenza senza selezione, abbandono, procrastinazione. Seleziono, lascio e rimando alla prossima volta incontri, libri, abiti, idee, luoghi. E l’intera casa da vivere. Ti vivrò la prossima volta casa dolce casa e la prossima volta cambierò il tuo arredamento, metterò nuove finestre, aggiungerò un bagno, ti costruirò un tetto sulla testa e investirò per una mansarda dove trasferire finalmente il nido che cerco. Eppure arrivo a casa, in una bella giornata di fine ottobre, quando il mondo che ho abitato finora è già affogato di pioggia e di inverno. Atterro, un passaggio di riconciliazione, in macchina con papà, dall’aeroporto fino al cortile soleggiato di casa, e la poltrona. Mi siedo, guardo la finestra, il cielo, la riga di mare appannata dal sale dei vetri, il tavolino, il camino spento, le piante ancora miracolosamente vive e verdi, il tappeto bianco come l’avevo lasciato l’ultima volta, i quadri, il poster delle vele d’epoca di cui, piccola e di spalle sono io l’antica protagonista, il pavimento rosa scelto – io dodicenne – dal gusto materno, lo specchio di bordo di Eilean anno 1936, il grande paesaggio d’amore dipinto da Anonimo e infine io, sulla mia poltrona, che cado in silenzio. Nessuna reunion può salvarmi da un lungo attimo di apatia, da un’indolenza che mi lascia inerte e senza desideri. Come se avessi troppe cose da dire e da fare adesso che sono qui ed invece nessuna fosse realmente utile o necessaria. Non ho voglia di montare sul mio amato furgone, srotolare sotto i pneumatici un nuovo viaggio, 40 chilometri a sudovest per raggiungere la madre solitaria e coinquilina di un gatto geloso di nome Paolino. Non ho voglia di dovermi ancora muovere da qui. Ora che ci sono resterei inchiodata a questa poltrona per secoli usando tutti i vizi di Baudelaire fino a non ricordare più il mio nome. Perché una tale assenza di spirito mi si coltivi dentro non lo so. Avrei preferito nascere intellettuale pura, o ingegnere, dottore, musicista, pittrice. Avrei preferito avere a che fare con una sola persona anziché con cinque, diciotto, novanta piccole volontà differenti. Avrei passato meno tempo a muovermi fra residenze e desideri, avrei maturato qualcosa di unico e forse di utile. Invece sono una chioccia disattenta, produco uova in ogni cestino, lasciandole solitarie l’attimo dopo e senza cova. Ho anche cominciato a perdere biglietti aerei che cadono inutilizzati nell’archivio digitale dei miei programmi. Ryanair continua a dirmi che è arrivato il momento di fare il check in, mi richiama all’ordine, al rigore, mi dice “coraggio! sii una persona seria, porta avanti il tuo biglietto, hai comprato un viaggio, non lasciarlo incompiuto”. Ryanair ha ragione. Ci sono persone dall’altra parte del biglietto che mi aspettavano, che avevano assaporato l’idea di avermi fra loro e l’amico caro con cui due estati orsono facevo colazioni stupefacenti al gusto di avocado e pomodoro nel sole fresco della finca majorchina, aveva allestito il suo viaggio, dai lidi veneziani, per trovare me, su quell’isola. Ed insieme ci attendeva l’amica cara, indigena, in fase di trasloco e nuove idee. “Suvvia” mi dice Ryanair, “non facciamo gli immaturi, è tempo di fare il check in”. Ed invece il suo appello resterà disatteso, farò finta di niente, cercherò di non guardare la posta fra oggi e domani per tentare di svincolare il senso di colpa e il dispiacere. Ma il lavoro ha mutato la rotta e i desideri hanno già trovato una forma adeguata. O forse è accaduto esattamente il contrario. Così passerò dall’Argentario a dire ciao alla casa che è stata, dalle olive della Maremma a ritrovarmi fra le cure di una seconda famiglia, ripasserò dalle rive assolate di Sanremo per chiudere con la mia cuccetta di bordo e poi volerò via, verso il sogno più vaporoso di tutti. So già che quando si farà condensa io mi ritroverò sofferente in mezzo a onde alte, le più alte di tutti, laterali e contrarie, fra anime indifferenti alla mia, chiusa in un recinto di ordini e turni di navigazione, senza poter scegliere di dormire dal lato giusto dell’inclinazione, senza poter scegliere il mio compagno di guardia per navigare la notte fra momenti di noia e costellazioni sconosciute, per oltre quattromila miglia. So già che sognerò l’arrivo, la sponda, il porto e che sarò diventata insofferente al pianeta umano e a tutti questi stereotipi di mielosissimo esotismo. Del resto sarò nel mezzo del continente più grande del mondo, una galassia nuova, tutta di acqua e sporadiche terre affioranti di sabbia e vulcani, galassia dove tutto è mistero e le profondità sono tali e tante da poter nascondere creature che solo Jules Verne era riuscito a scovare. Sarò nel luogo in cui nascono gli uragani e in cui si sono generate morti per naufragio e salvamenti. Sarò nell’oceano di Melville e in quello di Robert Louis Stevenson, passerò sopra i discendenti degli ammutinati del Bounty e a largo dei Moai. Probabilmente non potrò vederli e questo fatto li renderà più reali. Se scendessi a terra e facessi loro visita rientrerei in un comune pacchetto di viaggio francorossoalpitur. Non potrei accettarlo. Sarò in breve nella pura esoticità, dirimerò il mio sguardo impostore e sincero, avrò visto e non visto, amato e ignorato, meditato e perso tempo. E che utilità avrà mai l’ennesimo viaggio di un essere umano all’interno di un pianeta ancora vissuto come altro da sé? Mia madre chiede: “Cosa cambia fra questo e quel mare? L’acqua è la stessa”, e ha ragione. Si tratta della stessa acqua, prima o poi. Ma perché sia così occorre che l’acqua viaggi, che si trovi oggi nell’oceano appena fuori dalla porta di casa, e domani nell’oceano che ha tenuto prigioniera la scialuppa del primo ufficiale Owen Chase naufrago di baleniera. Ci vuole che l’acqua sia stata per un po’ a lambire la città di Lisbona e che dopo sia scesa, abbia svoltato a manca, passando per Tarifa, magari molto più in là per le sabbie di Stintino, sotto i finestrini del mio furgone, e che abbia fatto altri giri e mulinelli, si sia spesa in burrasche, sia uscita di nuovo da questo o quello stretto, abbia baciato il Madagascar o dall’altra parte le coste di Lagos, si sia mescolata per un po’ alle acque del Rio de la Plata o a quelle dell’Indo, abbia spazzato via piccoli barchini di pescatori giapponesi o qualche coraggioso surfista in Nuova Zelanda, ritrovandosi a passare quando ci passerò anch’io lungo l’atollo di Tahiti e poi giù, di nuovo o per la prima volta, come me, verso il Cile e poi magari, lasciando me nel porto di Montt, prosegueire verso i ghiacci del sud dove Shackleton aveva vinto la sua battaglia contro la rassegnazione e riportato tutti a casa. Dico che è doveroso seguire l’acqua salata per capire dove va e come fa. Come fa ad essere ancora viva e ad abbracciare tutto il pianeta. Vorrei seguirla fin dentro le terre, tra i fiordi cileni e magellanici, scoprire se è capace di spuntare poi all’altra parte. E nel frattempo incontrare i visi della gente complici di storie mescolate. Saluto dunque il sanremese Calvino per gettarmi fra le onde di un Pacifico accogliente, tenero, letterario, inospitale, crudele. Penserò che Corto Maltese avrebbe fatto di meglio e sarebbe stato in grado di incontrare sul suo cammino antiche regine destituite dal potere coloniale, capitani coraggiosi dall’origine misteriosa e in comune, gagliardi ambasciatori e scrittori d’ogni tempo. Ripasserò, per l’ultimo giorno del mese, dallo stanzone di Gente di mare, alla Capitaneria sanremese, e dal mio libretto di navigazione schioccherà con eco il timbro di fine imbarco. Saluterò la banchina d’ottobre, dove sempre meno marinai passano e quando lo fanno hanno smesso da tempo le infradito e già si limitano a far visita alle loro barche in giacca a vento, pantalone lungo e mocassino, mezz’ora prima di recuperare i figli da scuola e tornare a casa. Nessuno che si azzardi ancora, nemmeno il venerdì, a tirare fuori dai garage degli yacht a riposo le manichette dell’acqua per mettere in scena la più classica delle mansioni: il lavaggio barca. Niente più secchi, ramazze, pelli di camoscio, straccetti bianchi e tiracqua. Il circo del marinaio da motor yacht è giunto al termine, gli armatori rientrati nei loro mondi economici stanno all’asciutto dalle coste azzurre e smeralde. L’aria è fresca, i fondali più nitidi, la prossima settimana ci accorgeremo che i nostri smartphone avranno realizzato l’azione che un tempo, tanti anni fa, dovevamo ricordare tutti insieme di compiere coscientemente, tirando indietro di un’ora la lancetta degli orologi o al massimo digitando un numero in meno sui Casio da polso e facendo attenzione a che l’ora nuova corrispondesse a quella del televideo. Fra poco ci sarà da pensare al Natale. Per Natale sarò di nuovo qui, su questa poltrona, la stessa di sempre. Vorrei non limitare la partenza scagliandole contro un ritorno, ma resto soggetta a un dovere che si tramuta in necessità e poi in abitudine anche gioiosa e che mi riporta ogni volta alle case materna e paterna e al solito orizzonte che mal si distingue nel vetro salmastro, ma forse per questo più favorevole all’impasto di nuove rotte.
Porto Torres, 22 ottobre 2019
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
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