Ci sono due storie che sono accadute alla fine di settembre del 2019 e che, almeno apparentemente, non hanno nessun nesso tra di esse ma ci dicono, invece, ciò che siamo diventati e come utilizziamo le notizie. Prendiamo come esempio (ma tutti i quotidiani collocano le notizie più o meno nello stesso modo) La Repubblica del 26 settembre 2019. In prima pagina campeggia un titolo a otto colonne “Droga capitale” ed è legato all’omicidio accaduto qualche giorno prima a Roma: un giovane, Luca Sacchi, era stato ucciso con un colpo di pistola perché si era ribellato al furto di uno zainetto ai danni della sua ragazza. Le reazioni – quasi sempre scomposte e poco inclini all’attesa – condannavano ovviamente l’omicidio considerando il povero Luca una sorta di eroe immolatosi a difesa della propria fidanzata. Qualche politico si era subito arrogato il diritto di buttarla, appunto, “in politica”, accusando il governo di non fare nulla per la sicurezza del paese e della sua capitale che pareva paragonabile all’oscura Gotham City, luogo simbolico della violenza e del degrado. Le cose – sempre ovviamente – non stavano così: Roma non è la città dove impera il criminale Joker e la verità è, probabilmente, diversa da come è stata narrata finora. Fin dalla prima pagina Repubblica aggiunge al titolo “strillato”, un occhiello che spiega quello che forse è accaduto al povero Luca Sacchi: “Non è stato lo scippo di uno zainetto a provocare l’omicidio di Luca Sacchi ma un acquisto di stupefacenti finito male. Arrestati due ventenni. La madre di uno di loro li ha denunciati alla polizia: “Meglio in cella che tra un pusher”. [1] Leggendo l’articolo di Maria Elena Vincenzi, in seconda pagina, si apprende che “La fidanzata ha mostrato duemila euro nello zaino e i giovani che vendevano l’hashish hanno deciso di rapinarla. Poi la colluttazione e lo sparo.”[2]La notizia non toglie nulla all’atrocità della morte di un giovane ragazzo e all’assurdità del gesto però sposta – e non di poco – le migliaia di messaggi sui social contro, per esempio, la sindaca Raggi, il governo retto dal Presidente del Consiglio Conte, il Ministro dell’interno Luciana Lamorgese, tutte le richieste di portarsi in tasca un’arma per difendersi e difendere le proprie donne (proprio così: “le proprie donne”) e distrugge tutta la retorica sull’eroe contro i cattivi che, purtroppo per questa ondivaga platea non erano “extracomunitari” o, peggio “negri”. Una storia tutta italiana e tutta ancora da scrivere con la verità che dovrà essere ricostruita nei prossimi mesi e che dovrà tener conto di tutta una serie di elementi che nell’immediatezza non sono stati analizzati.La seconda storia è vecchia di un anno rispetto a quella dell’omicidio accaduto a Roma. E’ il 17 ottobre del 2018 quando un uomo di 30 anni che lavora presso una ditta di pulizie è fermato dalla polizia e arrestato con un’accusa terribile: violenza carnale ai danni di una connazionale. La violenza sarebbe stata consumata qualche giorno prima, esattamente il 7 ottobre. L’uomo, a seguito della denuncia della donna finisce in carcere e seppure si proclami completamente estraneo ai fatti deve attendere il processo che è fissato per il 25 ottobre. Un anno dopo. L’imputato, in realtà, oltre a ritenersi innocente, prova a chiedere – pare inutilmente – di sentire anche un’altra donna presente ai fatti accaduti a Milano, nel parco Lorenteggio, vicino alla Vodafone. Quella sera dopo qualche birra, due peruviani palpeggiano e molestano sessualmente la donna e uno di questi – l’imputato – finisce per violentarla. La ragazza si reca in commissariato e fornisce l’identità del violentatore. I nostri eroi, gli hater, quelli che sanno sempre come vanno le cose, subito chiedono di sciogliere la chiave per quell’uomo, sperano che possa ottenere lo stesso trattamento dai detenuti in carcere anche se la canea non dura moltissimo. D’altronde è una storia che interessa due peruviani. Che se la vedano loro. Il processo racconta invece un’altra verità. E a farlo è proprio la ragazza, testimone oculare dei fatti che ribadisce la versione sempre ribadita dall’imputato: la donna si è picchiata con un’altra connazionale per problematiche relative ad altri fatti. La presunta vittima viene pertanto contro interrogata e ammette di essersi inventata tutto. Il presunto violentatore viene assolto e subito scarcerato. Peccato che, nel mentre, proprio per via di questa accusa infamante, gli era stato revocato il permesso di soggiorno. Il quotidiano La Repubblica posiziona la notizia a pagina 25.[3] Per questo secondo caso non vi sono reazioni emotive da parte della rete globale. Nessuno ha commentato, nessuno si è sentito in dovere di chiedere scusa a nome di chi aveva chiesto per il peruviano innocente lo scioglimento della chiave della cella dove era stato ingiustamente detenuto. Che cosa è accaduto presso il Tribunale di Milano? Ce lo spiega, magnificamente, Luigi Ferrajoli: “ Se la giurisdizione è l’attività necessaria per raggiungere la prova che un soggetto ha commesso un reato, fino a che tale prova non sia stata raggiunta mediante un regolare giudizio, nessun reato può essere considerato commesso e nessun soggetto può essere ritenuto colpevole né sottoposto a pena”.[4] E’ accaduta, dunque, una cosa semplicissima non contemplata nell’universo social: “la presunzione d’innocenza” dell’imputato che deve rimanere tale fino alla prova contraria che deve essere sancita da una sentenza definitiva di condanna. Fateci caso: nel caso Bibbiano ci si è subito schierati tra colpevolisti (molti) e innocentisti (pochi); per la morte di Cucchi tutti erano convinti che si trattasse di un pestaggio in carcere ad opera di detenuti o poliziotti penitenziari; il ragazzo morto a Roma è stato prima considerato un eroe, paladino difensore della fidanzata e poi le indagini raccontano altro; infine il peruviano innocente era stato abbondantemente condannato da tutti. Dovremmo far tesoro di ciò che è già accaduto, dovremmo cominciare a comprendere che il giudizio non si basa sull’umore e non è ciò che molti telefilm americani ci fanno credere quando il buon poliziotto ci racconta che lui sa riconoscere i delinquenti: da uno sguardo, da una parola, da un gesto. La giustizia non è un atto istintivo e occorre stare molto attenti a chiedere condanne sommarie perché “quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è neppure la libertà”. [5]
[1] “La Repubblica” titolo di prima pagina. Articoli di Maria Elena Vincenzi, Paolo G. Brera, Rory Cappelli. Edizione del 26 ottobre 2019.
[2] La Repubblica, ibidem, pag. 2
[3] La Repubblica, 25 ottobre 2019 “Un anno in carcere per violenza. Poi lei ritratta: assolto e rilasciato. Di Ilaria Carra, pag. 25
[4] Luigi Ferrajoli, Diritto e ragione, teoria del garantismo penale, Laterza, 2009, pag. 559
[5] Charles L. Montesqueiu, Lo spirito delle leggi, UTET, pag. 431
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Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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