Nel 1985 ebbi la fortuna di conoscere Enzo Tortora. Lo incontrai, per la prima volta, all’Asinara, dove venne come deputato europeo del partito radicale a conoscere il capo della nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. Il suo incontro era intriso di sana curiosità: voleva capire come era riuscito a finire in un vortice terribile che lo aveva portato in carcere e che solo dopo molti anni il suo calvario si sarebbe concluso con un’assoluzione piena per non aver commesso il fatto. Enzo Tortora finì, anche se i social non esistevano e gli hater non avevano a disposizioni una tastiera su cui intingere d’odio quotidiano il malcapitato di turno, in un tritacarne terribile e assolutamente disumano. La gente si poneva la stessa domanda: “Qualcosa deve averla pur fatta se è finito in carcere”. Ecco, a quei tempi la macchina del fango utilizzava altre parole e altri binari ma il risultato era essenzialmente lo stesso. La buttarono anche in politica, nonostante Enzo Tortora fosse un presentatore – liberale e libero – non collocabile all’interno di nessun partito. Eppure, anche nel 1985 aleggiava, nei silenzi di quell’inchiesta, la famosa domanda: “parlateci di Tortora”.Quando ci ritrovammo, ad Alghero, in un ristorante di un comune amico, lui in una lunghissima chiacchierata assolutamente informale mi confidò che aveva paura, terribilmente paura della gente che non era in grado di conoscere l’intera storia. E aggiunse che aveva paura anche di se stesso: “Neppure io riesco a capire i contorni di tutto. Leggo e rileggo pagine su pagine ma, davvero, in base a quello che c’è scritto, mi condannerei all’ergastolo. So che non è così, ma ho capito che lo devo dimostrare”. “Hanno creato un mostro”, disse ad un certo punto. Lo disse a bassa voce, lo disse con la consapevolezza che la questione fosse grave e lo disse con la convinzione che lui non poteva assolutamente farci niente. Scrisse due libri sulla vicenda, in uno mi scrisse, dedicandomelo: “per chi capisce la sofferenza e per chi è curioso di conoscere la verità”. La sua completa estraneità ai fatti non servì a molto. Per molti era rimasta una macchia indelebile: forse non era Caino ma non poteva essere quell’Abele che voleva dipingersi. Ritornò, con cocciutaggine, in televisione perché era la sua vita, il suo mestiere. Le prime parole che disse, al suo rientro furono: “Dove eravamo rimasti?” Non servirono. Furono in pochi a comprendere il senso di quella frase, furono in tanti a passare oltre, come se niente fosse successo. “Dove eravamo rimasti” è una bella interlocuzione anche di questi tempi dove nessuno si guarda indietro per provare a capire il perché di quelle macerie che si intravvedono in lontananza. Su Enzo Tortora si scrissero pagine oscure, terribili e indegne. Furono davvero in pochi a credere, da subito, alla sua innocenza. Non servì la schiettezza del suo raccontare, la passione del voler puntualizzare, la terribile verità che si celava dietro i falsi pentiti che lo accusavano. “Hanno creato un mostro attraverso dei centrini di uncinetto”. Non c’era nessuna prova, solo indizi. Ma tutto questo, nella fase iniziale, non servì assolutamente a nulla. A qualcuno giovava, in quel momento, quell’orribile commedia. La creazione di mostri è sicuramente guidata da alcuni che hanno interesse a far salire sul palco il Caino di turno ed è assolutamente necessaria per un certo tipo di narrazione. Sono state costruite moltissime trasmissioni che hanno fatto la fortuna delle reti televisive. Trasmissioni che hanno scommesso solo ed esclusivamente sul “mostro di turno”: lo hanno inseguito, vivisezionato, accusato, crocifisso, gettato in pasto a dei testimoni che lo hanno dipinto come “strano”, come “cattivo”, come “colpevole a prescindere” e poi, senza neppure chiedersi come ci si sente ad essere “mostro”, ad essere accusato di un delitto per il quale la verità si dovrà stabilire comunque in un tribunale, ecco che la fabbrica di Caino va subito alla ricerca di un’altra storia da spremere, un altro mostro da mostrare. Sono i serial costruttori di vicende gonfie di sangue e ovvietà, poca verità e molto pathos: tutto questo fa presa su quel popolo per il quale i giudici, in un’aula di tribunale prenderanno una decisione che, ovviamente non collimerà con quanto la trasmissione e gli estimatori avevano immaginato. Sembra quasi che le sentenze siano emesse in nome dei magistrati e non, come previsto dalla legge, in nome del popolo italiano. Questo è un altro problema grossissimo. Non sapendo assolutamente nulla o comunque molto poco delle dinamiche processuali il popolo si costruisce un proprio processo, molto sommario a dire il vero, ed emette una sentenza che deve essere quella e nessun’altra. Ho lavorato in carcere a contatto con i detenuti per moltissimi anni. Devo dire che sono i peggiori giudici che vi possano capitare: nei confronti degli altri emettono sentenze terribili senza conoscerne neppure i contorni. Le persone accusate – ripeto: accusate – di violenza sulle donne o sui bambini – vengono subito isolate perché la sentenza della sezione del carcere sarebbe terribile: violenta e definitiva. Sarebbero degli ottimi leoni da tastiera e, purtroppo, diversamente dagli hater che utilizzano solo veleno virtuale, sono capaci di eseguire la sentenza e purtroppo molte volte è capitato. Verso la fine degli anni novanta mi sono occupato di un detenuto accusato di una violenza carnale a sua figlia che ha tentato il suicidio. Lo ha fatto dopo una settimana che viveva da solo in una cella e non usciva per paura di rappresaglie all’ora d’aria. Mi disse subito che lo aveva fatto perché aveva paura non degli altri detenuti ma di quanto era stato montato nei suoi confronti. Non avrebbe retto ad una condanna che riteneva assolutamente ingiusta e vergognosa in quanto si proclamava innocente. E lo era. In tribunale si scoprì che l’accusa era stata architettata dalla moglie che aveva costretto la ragazzina tredicenne di accusare il padre di un reato che non aveva assolutamente commesso. Quando uscì dal carcere piangeva ma non di felicità. Era convinto che la gente non avrebbe capito e lo avrebbe ritenuto colpevole comunque. Si suicidò dopo qualche anno. Non resse agli sguardi e ai silenzi di chi lo osservava e con insistenza gli chiedeva, anche senza domandare “parlami di tua figlia”.
la prima puntata
tutti i diritti riservati by giampaolo cassitta, giampaolocassitta.it e patamu.com -116046 06-12-2019
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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