4 – La categorizzazione del mostro.
Il mostro va esposto e additato. Alla gogna: con ferocia, con destrezza e consapevolezza affinché tutti lo colpiscano senza chiedersi perché. Non è importante quello che può aver commesso, ma è necessario ci sia la possibilità, almeno una, che sia sfiorato dal reato, dal delitto. Il mostro è la metafora quotidiana della nostra apparente tranquillità: ci fa comodo sapere che c’è qualcuno più cattivo di noi, più indegno, più infido. Questo ci permette di autoassolverci per quelle cose che potrebbero essere negative, non certamente dei veri e propri reati, ma comportamenti spregevoli che si superano guardando al mostro esposto. Vi è poi la generalizzazione della perfidia che costruisce selve di mostri e investe intere categorie, soprattutto quelle che lavorano per le persone e, dunque, le più esposte: infermieri, medici, docenti, assistenti sociali, ma anche giornalisti, politici, poliziotti, avvocati. Tutti mostri, tutti cattivi, tutti corrotti o comunque corruttibili, senza cuore, senza passione, indisposti ad aiutare gli altri, indisponibili a comprendere. Vere e proprie schiere di commentatori, di leoni da tastiera che alchimizzano sulle nefandezze che quotidianamente ci sono nella sanità, nella scuola, nelle redazioni dei quotidiani che quando si cerca di dibattere con i numeri e con il calcolo delle probabilità, oppongono pagine di internet che utilizzano come reali lavori scientifici e probatori, come statistiche assolute dove si scopre che il 90% dei giornali non dice la verità, il 90% dei medici non sa operare (almeno in Italia o in certe parti del paese), il 90% dei docenti non sa insegnare e il 90% delle assistenti sociali lavorano quotidianamente per sequestrare i bambini dalle famiglie. A nessuno di queste moltitudini viene in mente, per esempio, che molte delle notizie sono inventate e non dai giornali ma da dei professionisti delle fake news e si trovano guarda caso su internet e raramente nella carta stampata, che la quasi totalità delle operazioni effettuate dai medici chirurgi in Italia ha un decorso positivo, che da sempre, a scuola, ci sono alcuni docenti non troppo preparati ma la stragrande maggioranza di essi lavora con estrema passione e prova ad acculturare moltissimi ragazzi maleducati e poco inclini al sapere. Infine ci sono loro: quelli che lavorano sul campo sociale e che camminano su un campo minato perché maneggiano storie, lacerazioni, divisioni, divorzi complessi, aggressioni, maltrattamenti a donne e bambini, ma diventano loro i colpevoli, gli assassini, i divoratori di bambini, i divisori di famiglie. Come se la colpa dei bambini spaventati, violentati, abusati, dimenticati fosse la loro e non la conseguenza di ciò che è accaduto nei nuclei familiari dove, purtroppo, non tutti sono posizionati sulla modalità “mulino bianco”. La paura genera mostri ma la cattiveria sposta l’attenzione su persone che subiscono la condanna al posto degli altri. Bibbiano è il classico caso con tutti gli ingredienti giusti: bambini, famiglie, abusi, assistenti sociali, psichiatri, politici. Basta mischiare e dosare con una certa attenzione e viene fuori il racconto dei racconti in un universo di cattivi. Non ci interessa comprendere cosa sia davvero accaduto, cosa davvero abbia scritto il Giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza, non ci interessa attendere che la giustizia possa fare il suo corso, che gli accusati possano presentare, eventualmente, prove a loro discarico; non ci interessa perché non siamo preparati alla verità. Abbiamo l’esigenza di conoscere tutto e subito: troppo difficile attendere la verifica probatoria e la confutazione difensiva. Siamo innamorati dell’approssimazione senza riflettere neppure per un attimo che ci possano essere delle verità contrapposte, delle letture più complesse, delle stratificazioni neppure tanto sottili quando abbiamo a che fare con le persone.Il caso Cucchi sotto questo profilo è emblematico. Si è passati da una verità che pareva certa e accertata (accuse e condanne a dei poliziotti penitenziari) ad un’altra che si riteneva inverosimile (pestaggio del povero Stefano Cucchi che avviene prima del suo ingresso in carcere e ad opera quindi di carabinieri che poi, maldestramente, depisteranno le indagini).Che cosa è stato questo caso che ha fatto parlare e continua a farlo l’Italia divisa tra innocentisti e colpevolisti, tra chi voleva la morte di un “povero drogato” e chi, invece ha lottato e lotta per restituire a quel ragazzo, a quel corpo una dignità? Stefano Cucchi è il corpo svelato, orribile e crudo, che ci racconta come la violenza può essere indicibile, spartiacque assurdo tra la cattiveria e l’inutilità. La Procura di Roma dopo una serie di condanne ed assoluzioni e riapertura del processo, il 15 febbraio 2017 ha chiesto il rinvio a giudizio di cinque carabinieri coinvolti nella morte del giovane ragazzo.Le accuse sono omicidio preterintenzionale, abuso di autorità, falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia. Brutta storia. Bruttissima fin dal suo inizio dove il depistaggio, l’omertà e, diciamo anche una buona dose di vigliaccheria, ha visto sfilare davanti a giudici poliziotti penitenziari e dirigenti del Ministero della Giustizia che sono risultati invece estranei ai fatti. L’atto, la violazione del corpo non avvenne in carcere ma, come pare ormai assodato, all’interno della caserma dei carabinieri, all’interno di un luogo pubblico, dello Stato. All’interno di casa nostra. Perché di questo si tratta: di violenza di Stato e non è una bella notizia per chi quotidianamente lavora affinché questo paese non debba vergognarsi dei propri rappresentanti.E’ facile liquidare il tutto con “tanto era uno spacciatore”. E’ stato detto per Cucchi, per molti ragazzi che con qualche grammo di hashish vengono arrestati, ragazzi che non c’entrano nulla con il carcere, con il concetto estremo del carcere. E’ facile essere moralisti in un paese dove alcuni vengono chiamati “negri”, dove tutti hanno un cellulare in tasca che è divenuto nel corso degli anni una vera e propria arma che a volte uccide con le parole. Però, per carità, lo spacciatore di hashish è il male assoluto, quello additato da tutti come la gramigna da estirpare.Ritorniamo a Cucchi, alla sua strana vita e all’incrocio con un destino crudele. Torniamo a Cucchi e chiediamoci: davvero è stato giusto massacrare un ragazzo anche senza avere la volontà di ucciderlo? Fateci caso: quanto era facile dar la colpa alla polizia penitenziaria dentro questa zona grigia? Quanto era chiaro che i mostri potessero essere quelli che lavorano in carcere, che è stato sempre così, sono loro che massacrano i detenuti anche per una stupidaggine, sono loro che attivano, da sempre, la microfisica del potere. I carabinieri, invece, sono l’arma più amata, più devota e più leale. E che siano essi i più amati è vero. Ma è anche vero che vi sono all’interno dell’arma dei carabinieri e della polizia penitenziaria (e della polizia di Stato e della Guardia di Finanza) uomini che infangano la divisa. Sono pochi, pochissimi, ma ci sono. Quando però un poliziotto alza le mani ad un cittadino o alla propria moglie o compagna (succede, purtroppo anche questo) tutti a pontificare che “gli sbirri” sono violenti, frustrati, cattivi, fascisti. E non è vero ma abbiamo categorizzato il mostro e diventa terribilmente difficile riuscire a dimostrare che si tratta solo di qualche isolato caso. Su oltre 25.000 poliziotti penitenziari ci possono essere solo una minima percentuale che non svolge con onestà e abnegazione il proprio mestiere. La quasi totalità è un serio professionista che garantisce quotidianamente la nostra sicurezza. Se fosse vero il contrario i quasi sessantamila detenuti oggi in carcere sarebbero tutti evasi in quanto hanno corrotto i poliziotti, nelle carceri regnerebbe l’anarchia e non verrebbe rispettata la legge. Non è così, non è assolutamente così e tutti lo sappiamo ma la visione del mostro è più forte di qualsiasi verità. Non siamo davanti ad uno Stato di polizia dove regna il principio “nulla poena sine iudicio o nulla poena sine lege” ed è proprio perché in Italia vigono i principi di retributività, colpevolezza, giurisdizionalità, dove vi è l’obbligo di provare e verificare (nulla accusatio sine probatione) attraverso un contraddittorio (nulla probatio sine defensione) che le indagini su Bibbiano (e su altri tantissimi casi) sono assolutamente necessarie: se vi è la possibilità che sia commesso un crimine il giudice deve accertare la verità che dovrà attraversare una serie di passaggi. In alcuni casi potrebbe non giungere neppure il rinvio a giudizio davanti ad un tribunale, in altri, attraverso il contraddittorio, si arriverà ad una verità processuale sancita da un sentenza in nome del popolo italiano che, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, si discosta dall’ideatore e fomentatore di mostri. Solo quando quella sentenza passerà in giudicato e diverrà quindi “definitiva” occorrerà rispettarla e il condannato sarà davvero “colpevole”: un percorso, lungo, tortuoso, difficile ma necessario. Sono le regole del gioco fondamentali del diritto penale. Potremmo anche obiettare che la giustizia è lunga e a volte questa obiezione non è priva di fondamento, ma ad una giustizia sommaria e veloce è preferibile un percorso più garantito per l’imputato e anche per la vittima. Non ci sono, per fortuna, leggi in bianco che consentono interventi senza alcun vincolo giuridico come, per esempio, pieni poteri ai militari durante uno stato di guerra, ma non ci sono e non ci devono essere leggi “patriarcali” quelle che, secondo Max Weber[1] non hanno nessun vincolo rispetto al diritto, ma sono rimesse al solo volere del Principe o dei notabili o del vecchio sciamano o, per ritornare ai giorni nostri, al buon leone da tastiera e che produrranno una giustizia sommaria senza nessuna giurisdizionalità e legata solo all’arbitrio di chi, in quel momento decide producendo un “intima convinzione manifestata per si e per no, senza alcun limite preventivo di legge e senza il corredo di una completa motivazione di fatto”[2].
[1] Max Weber, “Economia e società”, edizioni di comunità, Milano 1961.
[2] Ibidem, pag. 243
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Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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