Avevo, di fronte a me, al tavolo di uno di quei ristoranti che oggi chiamano all you can eat, il disagio di un ventenne che non voleva lasciare nulla nel piatto e si industriava per sapere se e come il titolare ci avrebbe permesso di portare a casa gli avanzi.
Sono stato folgorato, in quel momento, dall’immondo e blasfemo pensiero che tutti, per un periodo, dovremmo patire la fame, sapere cos’è, affrontarla. Il ventenne che avevo di fronte a me ha conosciuto due vite.
La prima è durata diciassette anni ed è stata la vita di un ragazzo come tanti.
La seconda è iniziata un anno e mezzo fa, quando un incidente automobilistico lo ha costretto per mesi all’immobilità, in un letto d’ospedale, con l’addome spappolato. Mesi di flebo, beveroni, liquidi, centrifugati, mesi senza mai nulla di solido da mettere sotto i denti. Mesi trascorsi a guardare in televisione o sul tablet, da quello stesso letto d’ospedale, non più serie televisive alla moda ma ricette, talent show di cucina, nell’unico autentico desiderio di potere, un giorno, godersi il piacere di un pasto normale. Mesi in cui, quando qualcuno dei familiari mangiava una pizza nella stanza d’ospedale, lui chiedeva di poterla solo annusare, solo sentire il profumo e la speranza di pomodoro e basilico.
Io non so cosa sia la fame. Non ho mai dovuto saltare un pranzo o una cena per miseria. Ma sono figlio di contadini e ho ereditato il trauma di un avanzo di cibo rimasto nel piatto. Questo dovere babbo deve avermelo trasmesso col sangue e lui lo ha cresciuto in sé nella sua infanzia in campagna, quando tutto quel che finiva nel piatto era lavoro di braccia, astuzia e preghiera.
Ho un flash nella memoria, vecchio di una quindicina d’anni. Ritorno da una vacanza in montagna con amici, sosta ad un ristorante sulla via del ritorno. Una ragazza della compagnia che ritira al self service primo, secondo e contorno ma poi, presa dal suo telefonino, si scorda di dover mangiare, si alza e se ne va lasciando tutto sul tavolo, segna degnare i piatti di un boccone o di uno sguardo, col naso appiccicato al piccolo schermo della sua appendice elettronica.
Ricordo il senso di colpa, il mio senso di colpa, è il disagio nel trattenere gli insulti a lei e ai genitori, senza sapere che negli anni seguenti di scene molto simili avrei visto protagonista mio figlio.
A tutto questo pensavo mentre il ventenne di fronte a me si agitava perché nulla andasse sprecato, forte di un’esperienza fuori dal suo tempo.Non si dovrebbe mai augurare la fame a nessuno.
Ma quel che ho visto al tavolo del cosiddetto all you can eat mi ha convinto che conoscere la fame possa renderci persone migliori.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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