Scendo dalla macchina, diretto verso il bar, come sempre di fretta, quando vengo avvicinato da un uomo anziano, magro, vestito con un abito grigio chiaro e in testa la berritta. E’ solo. Stringe qualcosa nella mano e viene verso di me. E’ una moneta. – Mi scusi, quanto sono? Un milione, un milione e mezzo? – Magari! Sono cinquanta centesimi, signore. – Cinquanta? E quanto sono allora, mille lire? – Più o meno… A che le serve saperlo, sono solo cinquanta centesimi. Cosa le serve? Le offro un caffè? – No, grazie, non prendo niente. – Sicuro? – Sicuro. Entro ed esco dal bar in due minuti, torno alla macchina con passo veloce. Lui è seduto su uno scalino. Si alza di scatto, come allarmato. Apro lo sportello e si risiede. Mi allontano chiedendomi perché cazzo vado sempre di fretta e se un giorno anche io sarò un vecchio uomo con la sua moneta in mano e lo sguardo di un bambino.
A volte sembra che Facebook ti legga nel pensiero. Questo vecchio post, scritto quattro anni fa, mi è stato riproposto nella quotidiana collezione di ricordi proprio mentre pensavo di scrivere qualcosa sulla chiusura della Rsa di Olbia. E l’immagine da cui voglio partire per provare a raccontarla è quella degli anziani che, in lacrime, vengono caricati su un pullmino attrezzato per essere trasferiti in altre località, lontane da quella che era diventata la loro seconda casa, non così distante da quella che erano stati costretti a lasciare e che custodisce ancora gli affetti di una vita. C’è sgomento nei loro occhi, terrore nelle voci incrinate dal pianto. E c’è rabbia nascosta nei gesti affettuosi, nelle parole di speranza dei loro familiari che li vedono andar via, in quel termine “deportati” che qualcuno pronuncia perché certe immagini sono comunque evocative e si infilano nell’anima come spilli.
Quando chiude un posto del genere viene difficile impantanarsi nei soliti resoconti di gestioni societarie fallimentari, di scarsa attenzione delle istituzioni, di numeri, di cose fatte a norma e non a norma, di regolamenti e cavilli. Eppure gli ingredienti, anche stavolta, ci sarebbero tutti. La cooperativa che gestiva quella casa per anziani ha accumulato troppi debiti, non ci sono proposte serie da parte di altri soggetti e, dulcis in fundo, la stessa struttura non è a norma nonostante, per ironia della sorte, l’immobile sia di proprietà dell’Inail, cioè dell’ente che dovrebbe tutelare il lavoratore da infortuni sul lavoro e malattie professionali. E si potrebbe pure aggiungere che l’Inail, quel palazzone enorme incastrato in pieno centro, lo comprò per 40 miliardi di vecchie lire da una nota famiglia di costruttori romani che, potenza della fede, era incredibilmente riuscita a ottenere finanziamenti per costruire un hotel in funzione Giubileo, destinato a ospitare chissà quali folle oceaniche di pellegrini in transito a Olbia. C’è tutto questo, nella storia della Rsa di Olbia, battezzata ”Sole di Gallura” forse per provare a cancellare le ombre.
Quando chiude un posto del genere, ciò che colpisce è pure l’indifferenza cronica di chi, ancora, vecchio non è. In migliaia firmano i moduli al supermercato per dire “no alla chiusura della Rsa” e poi, alla manifestazione, di gente in carne e ossa ne trovi sì e no una cinquantina. Perché il problema è sempre degli altri finché non ti si presenta in casa. Perché andiamo tutti di fretta ma ogni tanto dovremmo guardarci allo specchio e provare a vederci stanchi, deboli e fragili, con una moneta in mano dal valore incerto.
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