Chissà come reagirebbe un vecchio dottore come babbo, di quelli che vedevano la gente morire e dicevano che non bisogna mai abituarsi a vedere la gente morire, davanti a quelli che rifiutano il vaccino. E davanti a quelli che per calcolo politico tengono loro bordone. Babbo ha vissuto la malaria come guerriero e come vittima. Come guerriero perché l’ha combattuta con razionale odio contro il nemico e con passione per la sua gente da difendere, come vittima non perché blandamente se la sia beccata pure lui ma perché faceva pienamente parte di un popolo di vittime.Aspettavano di partire per la Grecia. Erano in Sicilia e guardavano il mare. Il primo convoglio militare che avesse avuto qualche possibilità di arrivare senza incontrare bombe o siluri, avrebbe tentato di portarli al fronte. Alcuni per la prima volta, altri, come babbo, per tornare al massacro dopo una licenza.Babbo era ufficiale medico ma sapeva che su quel fronte la morte non faceva differenze: arrivava anche per il preziosissimo personale sanitario. E in più, tra gli italiani, c’erano certi ceffi di criminali di guerra che poteva capitare che a farti fuori fosse il fuoco amico, se come medico militare non facevi da bravo quando ti ordinavano di assistere alla tortura dei partigiani greci presi prigionieri. E a babbo era già capitato di non fare da bravo.Babbo queste faccende me le raccontò all’improvviso venticinque anni fa, quando mia madre era morta da tre mesi e a lui ne mancavano altrettanti per raggiungerla e io ero un più che quarantenne che di suo padre sino a quel momento non sapeva neppure che avesse avuto un attestato per il valore mostrato “esponendosi al fuoco nemico per portare in salvo i nostri feriti”. Me lo consegnò, quell’attestato, la relativa medaglia l’aveva persa. E lo conservo ancora. Ma non portò in salvo soltanto i suoi camerati. Una notte curò anche un ragazzo greco bucato da una pallottola italiana o tedesca. Lo aveva chiamato di notte una donna dicendogli che suo figlio si era ferito con la zappa. Lui andò e quando si accorse di che cosa si trattava e che quello era un partigiano decise di rispettare il giuramento di Ippocrate. Non aveva anestetico e il ferito si lamentava: “Giatrè mou, giatrè mou”, dottore mio, dottore mio. Babbo capiva e parlava il greco correntemente, ma quella notte, attento più a estrarre la pallottola che ai vocativi e ai possessivi, gli rispose: “Trema, trema, però zitto, che se i miei ci sentono, ci ammazzano tutti e due”. Io prima di quella sera in cui mi rivelò tante cose, sapevo soltanto che di armi in casa non voleva vedere neppure quelle giocattolo. Immaginavo che dovesse essere uno strascico della campagna di Grecia, sulla quale prima di allora, sin da quando ero bambino, mi aveva raccontato soltanto pochi e insignificanti aneddoti. Ma quella sera capii tutto il senso del suo antico terrore e aggiunsi la sua testimonianza, da padre in punto di morte a figlio, ai saggi di storia che già cominciavano in quei Novanta a essere pubblicati per dire che l’Armata s’Agapò era solo un’invenzione degli struzzi italiani.Quei giorni in Sicilia, quindi, babbo li viveva come un ragazzo può vivere quelli che pensa siano suoi ultimi giorni. Un po’ di malinconia e un po’ di voglia di divertirsi in fretta e bene. Per la gioventù fascista, questo voleva dire soprattutto andare in casino. Babbo però era uno che in casino non ci andava. Roba strana, babbo, per essere un fascista.E quindi, in Sicilia, per scacciare la malinconia andava in piscina. Già: aveva scoperto questa cosa che lo stupiva, lui che prima aveva messo il naso fuori dalla Sardegna soltanto per frequentare la scuola ufficiali in qualche regione del centro Italia. Era davanti a un mare bello quasi quanto quello della sua Gallura, o quello di Alghero che qualche volta raggiungeva con la fidanzata, mia madre, quando studiava all’università di Sassari. Ma lì in Sicilia era attratto da questo pezzetto di mare artificiale che faceva parte di qualche albergo confiscato dall’esercito per tenerci i morituri. Forse più che altro lo affascinava il trampolino, altro attrezzo sconosciuto, da cui faceva tuffi più modulati di quelli possibili dalla banchina di Cannigione.E alla conclusione di una di queste serie di giravolte, al pluff nell’acqua che lui ricordava gelida, babbo perse improvvisamente i sensi. Andò a fondo e cominciò a bere. Lo salvarono alcuni sui commilitoni che lo tirarono fuori e gli svuotarono in tempo i polmoni.Ma perché era svenuto? E perché stentava a riprendersi? Arrivarono un suo collega più anziano, superiore di grado, e alcuni infermieri. Cercavano di capire che cosa gli fosse accaduto. Sino a quando babbo riuscì a balbettare: “Chi-ni-no…”. E spiegò che ne avrebbero trovato qualche tubetto nella sua valigetta. Glielo somministrarono e stette subito meglio.E così, da buon medico sardo, utilizzò l’occasione per spiegare ai colleghi che cosa fosse la malaria. La sua era la terzana benigna, quella di cui in Sardegna si diceva “Sa frebbra terzana non est toccu de campana”. Ci si conviveva con normalità, un po’ come io posso convivere con i miei attacchi di artrosi cervicale.Stando a quanto babbo mi raccontò e a quanto poi ho verificato nel bellissimo saggio della storica della medicina Eugenia Tognotti, non è che la malaria fosse conosciuta solo in Sardegna. Le zanzare assassine avevano punto anche negli estuari dei grandi fiumi, il Po soprattutto, e nelle paludi del Lazio. Ma le bonifiche avevano funzionato e di questa malattia si stava perdendo la memoria. Già molti medici non erano in grado di riconoscerla. Ma non quelli sardi. Anche da noi c’erano state le bonifiche, e anche ben fatte – mi confermò la professoressa Tognotti in un colloquio -, ma il male era talmente radicato rispetto al resto d’Italia, che l’interruzione dei lavori dovuto alla guerra aveva addirittura sortito il risultato di peggiorarlo, visto che i nuovi canali artificiali lasciati a metà erano serviti da nuove casette sia per le zanzare della terzana benigna sia per quelle che invece ti ammazzavano.Babbo era quindi un esperto in malaria: come medico e come uno dei tanti sardi che se l’era beccata. E quando, miracolosamente scampato alla guerra, tornò a casa e cominciò a girare i paesi della Sardegna facendo il medico condotto, questa sua esperienza fu preziosa.E avvertì sulla pelle quale svolta storica fosse per la nostra isola l’attività della Rockefeller Foundation.Io le cose degli americani le ho sempre guardate con sospetto. E credo a ragione. Così una volta ricordai a babbo delle polemiche sui metodi di eradicazione usati dalla fondazione e che sul DDT già a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta c’erano molti dubbi. Anzi, tragiche certezze. Lui mi guardò come fossi una zanzara da schiacciare: in quanto a ragionamenti niente più di un ronzio, ma molesto. E mi disse soltanto: “Prima di allora da noi morire per una febbre era normale. Dopo si cominciò a piangere quando succedeva, perché non era più normale”.E cosa volevi replicare a certi argomenti (e a certi sguardi)? Te ne stavi zitto.Ci fu pure la questione di Fausto Coppi. Era il 1960 quando l’atleta più amato d’Italia morì perché i medici non si erano accorti che poco prima, in Africa, era stato punto da una zanzara portatrice di malaria. Sarebbe bastato un po’ di chinino e Coppi sarebbe risalito sulla bicicletta. Babbo, quando Coppi era ancora febbricitante per la “misteriosa malattia”, lesse i giornali. “Ma quale mistero – si disperava nell’ambulatorio del suo paesino-? I sintomi sono chiari, inoltre è stato in Africa, non ci vuole molto”. E mi raccontò di avere vissuto questo senso di impotenza davanti alla morte annunciata e facilmente evitabile di un uomo che anche lui ammirava. Aggiunse di avere anche tentato, credo tramite l’Ordine dei Medici della provincia di Sassari, di mettersi in contatto con l’ospedale in cui Coppi era ricoverato. Ma fu tutto inutile. Qualche mese dopo la morte del grande ciclista, durante un convegno dell’Ordine, nelle chiacchiere di un intervallo scoprì che moltissimi suoi colleghi sardi avevano avuto la stessa reazione e come lui avevano tentato inutilmente di avvertire i loro colleghi del Continente che per salvare Coppi non ci volevano cortisone o antibiotici, ma il vecchio chinino. Che per i medici sardi era un attrezzo da valigetta, come il fonendoscopio o il disinfettante.E mi colpì, del racconto di babbo, il tono malinconico. Non mi disse vanaglorioso: “Noi medici sardi sì che lo sappiamo che cos’era la malaria”. Mi disse: “Noi medici sardi, purtroppo, lo sappiamo che cos’era la malaria”. Con la faccia di uno che di mestiere salvava le persone e che, tra guerra e malaria, di persone morire ne aveva visto troppe, più di quante un medico possa sopportare.No, credo proprio che ora davanti ai giochetti novax, per di più meno giustificati delle mie critiche al DDT, userebbe lo stesso rabbioso e dolente disprezzo di chi sa che cosa vuole dire abituarsi alla morte.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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