2006Art&Mise
E’ vero: prima c’è la parola. Nessun codice è completo senza la parola. Ma il suo tuffo nel seducente orrido della tragedia classica Valentina Capone lo compie soprattutto con il corpo. “Sole” vuol dire Sole, quella stella misteriosa che ti dà la vita e insieme te ne asciuga ogni umore. Ma è anche plurale di “sola”. Femminile soltanto grammaticalmente, perché in questo contesto l’aggettivo è attribuito al sostantivo “persona”, dall’universale valore neutro: uomini e donne, siamo tutti persone sole. E per chiarirlo l’attrice, autrice e regista ha sottotitolato il suo viaggio con Euripide in un Inglese dove i due termini distinti non danno luogo a equivoci: sun e alone. E’ facile pensare che “Sole” riveli molti dei profumi artistici e metodologici del grande Leo De Berardinis, facile perché la Capone del maestro è stata vicina di teatro e di vita. C’è di lui il giustapporsi della tragedia e della farsa, a esempio, cosa banale a dirsi, ma tremendamente difficile a farsi senza scadere in un grottesco e involontario umorismo, cioè nel ridicolo. Mentre la Capone insegue questa ambiguità del vero e la trova nei suoi mille personaggi che in fondo sono solo uno o forse nessuno, e conclude vittoriosamente la sua ricerca nel nucleo eterno della tragedia greca, confuso e infuocato, creatore e distruttore come il magma. In questa bella operazione teatrale formata da una rivisitazione delle Troiane e della Ecuba di Euripide (nuova citazione classica, dopo la Medea di Lea Gramsdorff, nella importante rassegna organizzata al Parodi di Porto Torres dalla compagnia Teatro Sassari) il corpo è quindi protagonista. Il corpo plastico ed eclettico di Valentina Capone che illanguidisce su un sedile e improvviso saetta tagliando come una lama sapiente gli spazi e le luci (curate da Stefano Stacchini) della scena, avvolgendosi e sfidando le musiche melodiche e dissonanti, guerresche e conciliatrici, il corpo che si fa altro con le maschere (di Stefano Perocco Di Meduna) che Valentina promuove a persone o misteriose divinità. Personaggi, comunque, nella loro individualità. Un corpo che non danza, perché la danza sarebbe arte riduttiva rispetto a questo sapiente, complesso e ininterrotto processo di destrutturazione e ricomposizione di tronco e capo e gambe e braccia che la Capone compie in una performance defatigante per lei e seducente per il pubblico. Sullo sfondo di Troia distrutta e in fiamme, ecco il dramma delle prigioniere degli Achei, quelle “Troiane” in cui Euripide racchiude l’eroismo sofferente delle donne degli eroi e quell’Ecuba schiava dei vivi e dei morti, i suoi fantasmi amati che la trascinano nel grande gorgo del destino. Queste mille donne sole che Valentina Capone raffigura sotto un simbolo eliocentrico che è anche un luminoso scudo, oggetto di guerrieri, preda pregiata nella tradizione omerica e letto sul quale deporre sino al rogo i morti in battaglia. Valentina è tutte le donne di Euripide. Ma in questa rilettura, rispettosa del testo tragico, le basterebbe essere l’Ecuba del drammaturgo, nelle sue trasformazioni da regina regale a regina crudele, da vecchia affranta a vendicatrice demoniaca, da donna pratica padrona del quotidiano a fine sapiente che si aggira nelle grotte di fato e di psiche, maestosa e disperata sino a quando, esaurito ogni spazio della sofferenza, si trasforma in belva. E’ davvero straordinaria la capacità della Capone di rendere questa infinita gamma di differenze con altrettanti rapidi passaggi di movimenti, di parchi eppure risolutivi cambi di costume in scena, metamorfosi di aspetto e di voce che vanno dai toni maestosi della tragedia a quelli tristemente comici (in questa eterna ambivalenza) del personaggio di Etora, la buffa e inusitata amante di Ettore che lo segue e subisce senza capirlo tutto il senso del dramma. Ettore? Un’amante? Ma quando mai? Il campione dell’eroismo politically correct? La fedeltà fatta uomo? Abbandonarsi a una bellissima (non si può negare) ma scioccherella donna dall’indefinito accento lombardo? Infatti. Chissà se Etora lo è davvero o soltanto sogna di essere l’amante di Ettore, eroe un po’ palloso (Zeus l’abbia in gloria) che difficilmente potrebbe capire quanto è più vera e più donna e più fisica questa sensuale evocazione dai capelli rossi, della sua eterea, altera e asessuata Andromaca. Etora è un geniale climax “discendente” escogitato dalla brava autrice e attrice probabilmente per stemperare una insopportabile tragicità e immergere la spada arroventata del dramma in un’acqua raggelata anche da un accento buffo. Insomma, più di un monologo, molto di più, anche se Valentina è sola sul palcoscenico a interpretare le sue tante donne. Un racconto strutturato ma anche dai tanti accenti misteriosi e affascinanti. Forse suggestioni autobiografiche, ma sempre comunque di una potente teatralità come quando l’eroina in una esibita e oltraggiosa nudità, con le braccia chiuse sul petto, fa una molto moderna dichiarazione di amore a un suo eroe ormai lontano. Le musiche sono curate da Alessandro Rinaldi e dalla stessa Valentina Capone. Assistenti alla regia Rascia Darwish e Alessandro Rinaldi.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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