Da bambini era una festa quando qualcuno si ammalava. Mamma ci lavava e ci vestiva in fretta e furia e ci portava nella casa colpita dalla fortuna prima che il grande affollamento ci impedisse di avvicinarci al letto. Noi avevamo una casa molto piccola, quindi quando toccava a noi evitavamo di spargere la notizia perché non avremmo saputo dove mettere la gente. Lo dicevamo soltanto ai parenti stretti; babbo pure a un suo amico intimo con il quale sin da piccoli si scambiavano malattie anche importanti. Ricordo quando si ammalò zio Eufemio, roba di polmoni, mamma e babbo ci portarono di corsa. Erano i nostri parenti ricchi e la zia a noi bambini offrì persino i pinguini Motta, a mamma e babbo il vermouth Cora ma si vedeva che loro occhieggiavano i pinguini e che li avrebbero preferiti. Poi ci fecero entrare in camera di zio Eufemio che ci accolse con un grande sorriso e allargò le braccia -Venite, venite, bambini, avvicinatevi: così da grandi avrete un petto robusto e potrete andare a lavorare nei campi. E certamente che ogni tanto qualcuno moriva. E cosa pretendi, che la gente campasse in eterno? Perché, adesso, con tutte le diavolerie moderne, non muoiono lo stesso? Allora almeno eravamo più forti e le malattie ci scivolavano addosso senza farci male perché ce le passavano tutti uno con l’altro. Quando arrivò l’epidemia di tracoma fu un periodo molto bello. Appena si notava un bambino che cominciava a lacrimare e gli si riempivano gli occhi di cispe, ci portavano a passargli le mani in faccia e poi mamma ci raccomandava -E adesso sfregatevi gli occhi bene bene con i polpastrelli. Ne parlavo proprio l’altro giorno con il mio amico Zuniari, uno di quelli che mi sono rimasti da quei tempi. Lo aiuto sempre ad attraversare la strada perché il cane ormai è vecchio.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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