“Change” è un libro che Paul Watzlawick ha dato alle stampe circa 40 anni fa, nel 1974. Io lo lessi circa 20 anni fa ma mi è tornato prepotentemente in mente l’altro giorno alla fine della lettura di due articoli sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa. Il primo è di Sandro Trento e Alberto Taddei (Uscire dalla crisi, la partecipazione del lavoro all’impresa, Il Mulino 6/2014) e l’altro è dell’architetto del renziano job acts, Pietro Ichino (Partecipazione dei lavoratori nell’impresa: le ragioni di un ritardo, Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 1/2014).
In questi due articoli, da prospettive differenti (i primi sono economisti e il secondo è un giuslavorista), si articolano dei ragionamenti sulla crisi economica che ha attanagliato l’Occidente a partire dal crollo della finanza Usa, sulle sue conseguenze sui sistemi produttivi locali e, soprattutto, sul ritardo italiano nell’adottare delle forme di democrazia economica o di partecipazione dei dipendenti all’impresa, strumenti che potrebbero aumentare il livello di identificazione dei lavoratori all’organizzazione produttiva, la creazione di innovazioni e soluzioni produttive più efficienti rispetto al passato e, infine, un aumento di produttività. Maggiore produttività: la sola, unica, vera, legittimata leva capace di tirarci fuori dal pantano della deflazione e della recessione. A sentire loro.
Le motivazioni addotte a spiegare il “ritardo italiano” rispetto ad altre parti del mondo nel coinvolgere maggiormente i lavoratori all’impresa e le possibili soluzioni ipotizzate a tale gap, appaiono accomunate dalla stessa “colla ideologica” nei due articoli citati. Il presupposto è che “gli altri” siano ontologicamente più bravi e capaci di noi, al di là di ogni serio sguardo alla storia socio-economica dei paesi, delle loro istituzioni e dell’influsso di queste nella costruzione dei mercati del lavoro. Si citano il modello giapponese e quello tedesco come capaci di costruire strette relazioni tra il sistema organizzativo (la dirigenza) e i lavoratori: regole scritte e non scritte impegnano l’azienda a tutelare la stabilità del posto di lavoro, investire in formazione dei dipendenti, inserirli negli organi di governo societario e in attivi processi di controllo del flusso produttivo e della qualità (del processo e dei prodotti finali). In cambio l’operaio tedesco e quello giapponese versano la loro moneta di fedeltà all’azienda: maggior impegno e capacità produttiva/innovativa.
Noi no. Noi non siamo capaci di costruire cogestione perché, questo il punto, l’Italia sconta la colpa della dominante “cultura del conflitto” di matrice comunista, veicolata dalla CGIL: la cogestione sarebbe faccenda sospettosa perché considerata una” forma di assoggettamento del lavoratori alle logiche padronali, un tradimento del conflitto di classe tra il capitale e il lavoro” (Trento e Taddei). Il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’azienda esprime una visone comunitaria dell’impresa e “l’accettazione dell’esistenza di un qualche interesse condiviso tra lavoratori e imprenditori”, impensabile all’interno della visione strategica del PCI, in cui “l’imprenditore opera per il proprio tornaconto, mentre l’interesse dei lavoratori, coincidente con l’interesse generale, è necessariamente tutt’altro” (Ichino).
Nonostante l’articolo 46 della Costituzione riconosca “il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione dell’impresa”, ciò che siamo riusciti a combinare, alle nostre latitudini, è una partecipazione molto epidermica: il diritto dei lavoratori di essere informati e di poter influire (in modo molto debole) su alcune scelte aziendali; diritto di volto dei rappresentanti dei lavoratori; procedure di negoziazione obbligatoria; accordi sindacali di chiusura di un conflitto. Il tutto (o il poco), per entrambi gli autori, trova radici in una” anomala” cultura del conflitto, dove si rivendica la possibilità (seppur futura) di stravolgere le posizioni di forza in campo e di far valere una idea “statalista” di politica industriale: “l’idea che la sola prospettiva stabile di crescita economica si collochi nel quadro di un sistema fondato sugli incentivi pubblici e dove sia necessario un investimento diretto dello Stato nell’industria”. Con buona pace di Keynes…
Il menù di soluzioni a questa sorta di italica tara psicologico-culturale dei nostri sindacati e dei lavoratori è ciò che mi ha riportato alla mente il libro di Watzlawick: guardare all’Europa (vedi mondo anglosassone), mandare al diavolo la contrattazione collettiva e lasciare che diversi modelli di relazioni industriali possano confrontarsi e competere tra di loro, magari fornendo qualche aiuto in forma di agevolazione fiscale per le imprese che accolgono forme di partecipazione agli utili e di azionariato dei dipendenti. Ognuno per conto proprio: se vien fuori un Del Vecchio (Luxottica), l’imprenditore “illuminato”, capace di implementare modelli di welfare aziendali, ripartizione degli utili con i lavoratori, casse sanitarie interne e così via .. bene; in caso contrario c’è sempre l’ignoranza e la diffidenza della classe lavoratrice o la cultura comunista della CGIL a poter essere chiamata in causa per la spiegazione del freno od ostacolo al “normale” emergere di relazioni di co-gestione aziendale.
I lavoratori “devono” accogliere come normale che l’unica possibilità di cambiamento, di apertura alla cogestione e partecipazione aziendale sia promossa dalla gerarchia, da un management che per definizione è onesto, capace, previdente, competente nel diverso articolarsi delle sue funzioni di direzione. I problemi quando vengono, hanno tutti la loro genesi dallo spazio del lavoro, dalla carente produttività dei lavoratori, mica da fesserie compiute dai punti apicali dell’azienda, mica da malaffari o scelte erronee. Evidentemente sia Ichino che Trento e Taddei non hanno letto Williamson, Simon e tutti gli autori che hanno definito le categorie di “opportunismo”, “blocco informativo” e così via.. O hanno letto e compreso ma sono in malafede.
Ma il punto centrale, tornando a Watzlawick è la logica del cambiamento proposto da Ichino e compagnia cantante. Una logica “tutta interna”, un cambiamento 1, direbbe Watzlawick. Un processo che assomiglia ad un topolino che corre, corre, corre, ma lo fa in una ruota, rimanendo infine ad un punto fermo, senza nulla cambiare. Per spiegare le logiche dei cambiamenti (di tipo 1 e di tipo 2) Watzlawick ricorre ad un gioco, quello in foto. Si tratta di connettere tutti i 9 punti con solo 4 linee rette senza staccare la penna dal foglio. La difficoltà principale in questo gioco deriva dal fatto che questi 9 punti ci appaiono come un quadrato: vediamo un quadrato formato da 9 punti ma non vediamo i 9 punti presi singolarmente.
La percezione del problema svilisce profondamente il nostro tentativo di trovare una soluzione. Se, come normalmente siamo portati a pensare, tentiamo di risolvere il problema tracciando linee all’interno del quadrato non riusciremo mai a trovare la soluzione. L’unico modo di risolvere il problema dei 9 punti è di uscire dal quadrato; scoprire che non abbiamo di fronte un quadrato ma solo 9 punti; immaginarci punti immaginari, non immediatamente presenti. La soluzione del gioco, infatti, è data dal muovere le linee partendo dal quadrato ma uscendone.
Fuor di metafora, una delle soluzioni consiste nell’immaginare, in una situazione di crisi, con l’impresa in crisi, in liquidazione, in fallimento o fallita, che siano gli stessi dipendenti a riprendersi in mano l’organizzazione produttiva, recuperarla con le loro energie senza aspettare l’imprenditore “illuminato” o la sola luce dei pur fondamentali ammortizzatori sociali. In Argentina hanno ri-scoperto le fondamenta greche del concetto di “crisi” – ovvero “scelta, decisione, fase decisiva di svolta” – occupando le aziende fallite (quasi sempre per responsabilità padronali), formando delle cooperative di autogestione e rimettendo quelle aziende sul mercato attraverso forme organizzative dove quella che sembra una “normale” ripartizione delle funzioni all’interno di un’impresa (management-quadri-esecutivi) trascolora in un modello di democrazia aziendale, con una rotazione dei ruoli, una parificazione degli stipendi, un aumento di responsabilità individuale e di collante con il territorio che ospita l’unità produttiva. Sono oltre 300 imprese con più di 40mila addetti. Mica noccioline… Qui in Italia il fenomeno comincia a diffondersi perché, molto probabilmente, anche nella domus di “Romolo e Remo”, la crisi sta risvegliando negli individui insospettate vitalità, fresche energie capaci di far vedere non un quadrato di fronte a sé, ma solo nove punti.
Gli “workers buyout” sono ex-dipendenti capaci di legare i nove punti senza staccare la matita dal foglio solo con 4 linee rette. Sono ex lavoratori che grazie alla Legge Marcora del 1985 (che finanzia fondi che erogano prestiti a tasso agevolato per la salvaguardia dell’occupazione dei lavoratori tramite l’acquisto, l’affitto o la gestione in forma di cooperativa dell’azienda di cui erano dipendenti), la legge 223 del 1991 (che consente ai dipendenti di un’impresa in crisi di mettersi in proprio e di richiedere all’inps l’anticipazione dell’indennità di mobilità al fine della costituzione di una cooperativa), e il DL 145 del 2013 (che sancisce il diritto di prelazione in capo alle società cooperative di ex dipendenti in caso di affitto o vendita dell’azienda o di alcuni sui rami), diventano attori protagonisti della “rinascita” della centralità del lavoro, proprio dove il lavoro l’hanno perso. Non è facile che ex dipendenti leghino i nove punti e diventino direttamente responsabili dell’azienda; è necessario un accordo con i sindacati, un accordo tra la proprietà, i creditori e il liquidatore, la manutenzione del rapporto con fornitori e clienti e con il sistema del credito, la possibilità di utilizzare appieno, sul piano locale, gli strumenti legislativi presenti e la presenza di istituzioni che “accompagnino” i lavoratori in questo processo di recupero aziendale. Non è facile ma già 40 casi in Italia hanno ridato un ruolo professionale, un’identità e responsabilità nuove a circa 1500 lavoratori che, in forma di cooperativa, gestiscono danari per oltre 70 milioni di euro.
In una situazione italica in cui solo nel 2013 sono fallite oltre 14mila aziende (14% in più rispetto al 2012 e 51% in più rispetto al 2009), sono oltre 67mila le imprese che dal 2009 al 2014 hanno portato i libri contabili in Tribunale, si contano 63 fallimenti al giorno (due imprese ogni ora) nei primi sei mesi del 2014, quella dell’autogestione operaia dell’impresa recuperata in forma di cooperativa mi sembra un’occasione da non perdere. Anche e soprattutto qui, in Sardegna, dove dal 2009 i fallimenti sono stati oltre 1250.
Un modo di legare i nove punti in 4 mosse senza mai staccare la matita dal foglio. Perché il rischio è che domani il foglio con il gioco di fronte agli occhi rischiamo di non trovarlo più.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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