Le accelerazioni di Mbappe sembravano più sovrumane che mai, l’essere ovunque di Verratti inspiegabile, il palleggio di Messi e Neymar puro spirito, senza cedimenti la sicurezza di quei due energumeni neri davanti a Donnarumma.
Dopo il primo tempo, per il Real Madrid non sembrava esserci scampo. I bianchi avevano giocato a Parigi un’andata catenacciara parcheggiando il pullman davanti alla porta – come dicono gli inglesi – ma, proprio all’ultimo minuto, la freccia col numero 7 sulla schiena li aveva trafitti, sfidando anche la fisica e l’impenetrabilità dei corpi per mettere nel sacco da posizione impossibile.
“Uno così su un campo di calcio non s’è mai visto”. L’ho pensato, quando Kylian ha colpito per la prima volta il Real, prima che la bandierina alzata del guardalinee gli strozzasse l’urlo in gola.
Ne ho avuto la sicurezza qualche minuto dopo. No, non si era mai vista una progressione tanto prepotente verso la porta avversaria e una violenza nel tiro come nel gol che ha chiuso il primo tempo. Dopo settanta metri col cuore a duecento pulsazioni uno dovrebbe essere stanco, avere la vista appannata e il fiato grosso. E invece, osservando con attenzione i fotogrammi della sequenza al rallentatore, lo vedi quasi rilassato, prendere la mira per piazzare il pallone dove il gigante belga non se lo sarebbe mai aspettato.
Forse solo Ronaldo il fenomeno era capace di concentrare in un solo uomo altrettanta forza muscolare e pari abilità tecnica, ma ho avuto l’impressione che nessuno sia mai stato determinante come il Kylian Mbappé del primo tempo.
La ripresa è iniziata come erano finiti i primi 45 minuti. Mbappé ha scartato tutti, messo a sedere Courtois e scaricato in rete. Ma la bandierina del guardalinee si è alzata ancora e il conto è rimasto aperto, anche se l’angolino destro dello schermo diceva “aggregate 0-2”.
A quel punto l’urlo del Bernabeu si è fatto ululato. E la Storia è scesa in campo come legge inesorabile.
La Storia ha preso per mano Modric, lo ha messo al centro del campo, gli ha ceduto le chiavi della partita. Il regista slavo, a sua volta, quelle chiavi le ha passate a Karim Benzema. E il bombardiere franco-algerino le ha infilate nella porta chiusa a chiave del Psg, spalancandola tre volte.
Sulla fascia sinistra della storia correva il giovane Vinicius. Spentosi dopo le fiammate iniziali, ha ripreso la sua danza in un susseguirsi di finte, stop e piroette, fiaccando un minuto dopo l’altro la guardia di Rachimi e riaprendo una partita che sembrava chiusa grazie alla distrazione dell’altro gigante tra i pali, Gianluigi il predestinato.
E alla fine il giocatore più forte del mondo si è dovuto arrendere. I suoi muscoli, la sua dominante prestanza atletica non sono bastati. Perché per vincere una partita non servono solo quadricipiti scolpiti e polmoni da Fausto Coppi. Nel calcio bisogna saper accettare la forza dell’avversario quando appare soverchiante e contenerla col sacrificio. Bisogna essere disposti a soffrire e capaci di amministrare fiato e forze. Ma, più di ogni altra cosa, servono carattere e personalità per rifiutare un destino segnato.
Ieri il Real Madrid ha offerto un mirabile esempio di tutte le qualità appena elencate e ci ha regalato una indimenticabile serata di calcio. Lo sport non cancella la guerra, l’orrore dei bombardamenti, l’angoscia per gli incerti giorni che verranno.
Ma ogni tanto bisogna parlar d’altro e persino sorridere per una partita di pallone.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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