Anche oggi ho lavorato parecchio. Sono giorni di lavori casalinghi, questi. Spostamenti di roba, pulizia di magazzini, conservazione di vecchie cose, eliminazione di altre, accatastamenti il più possibile razionali di oggetti e mobili. Coloro che l’hanno fatto, sanno di cosa parlo. Ci si muove in ambienti angusti, a volte malsani, pieni di polvere e umidità e poco illuminati. Si ha fretta di finire per riposarsi e farsi una doccia ma si ha anche fretta di completare il lavoro per poterlo guardare con soddisfazione e dire. “Ah, come l’ho fatto bene!”. E in questi frangenti capita di doversi misurare con piccole questioni pratiche, che sarebbero anche semplici se non fosse per l’ambiente ostile in cui si opera. Tocca risolvere problemi rognosi, arrangiarsi con quel che c’è, prendere decisioni in fretta chè le mani sono due e le braccia più di tanto non ci arrivano a fare le cose. E allora l’inventiva, la fantasia, l’esperienza e -perché no- qualche nozione di fisica rimasta a circolare per le sinapsi da quei lontani giorni del liceo, concorrono a fare la differenza tra un lavoro di schifo e un lavoro fatto bene. E succede di capire che aver studiato fino alla laurea può avere il suo porco senso anche in questi casi limite. A me è capitato ieri. Stavo sistemando le parti di un mobile smontato in precedenza. Pezzi lunghi anche due metri, larghi più di un metro e pesanti, molto pesanti. Li stavo sistemando infilandoli, sdraiati sul lato lungo, in uno spazio stretto tra uno scaffale già traboccante di scatole e un altro mobile più alto di me. Per evitare di graffiarli strisciandoli contro il pavimento ruvido, avevo sistemato per terra dei listelli di legno. L’idea era di posarveli sopra, e così ho fatto. A lavoro quasi finito, con i listelli ormai bloccati dal peso di tutto quel legname, mi accorgo che restava un po’ di spazio, una sorta di piccolo pozzo incastrato tra lo scaffale, il mobile più alto di me e i pezzi ormai mirabilmente affastellati dalle mie sapienti mani. Un piccolo spazio che, in quanto maschio raziocinante alle prese con un lavoro muscolare e intellettuale, avevo intenzione di sfruttare a pieno, sistemandovi altri pezzi di forma e dimensioni appropriate. Ma occorreva prima di tutto calare in fondo a quel pertugio un altro listello di legno, per proteggere i nuovi oggetti da graffi e urti. Esco dal magazzino, mi avvicino alla catasta del legname e individuo con fare sicuro un piccolo legno di lunghezza e spessore perfettamente adeguati all’uopo. Orgoglioso, mi avvicino all’anfratto e faccio per depositare il prezioso tacco sul pavimento. Le mie lunghe braccia (le ho veramente lunghe) non sono sufficienti a toccare il pavimento da quella posizione e dunque dovrò optare per un lancio calibrato del tacco verso la posizione utile. Il piccolo legno, per mia sfortuna, anziché depositarsi nel luogo da me individuato, con un rimbalzo inatteso va a sistemarsi di sbieco su una delle pareti del cunicolo, rappresentata da una porzione del mobile di cui sopra. Disdetta! Come fare? Il braccio non ci arriva. Non ho voglia di tornare fuori a prendere altri legni, che tra l’altro piove. Di spostare il mobilio già adagiato sui listelli non se ne parla, e in testa torna la domanda: che fare? D’improvviso, mentre il tarlo dello sconforto inizia a far merenda con i miei neuroni, alzo lo sguardo allo scaffale traboccante di oggetti e vi scorgo l’arma finale. Con serena disciplina allungo il braccio, la afferro, me la guardo compiaciuto. Me la giro un po’ tra le mani assaporando il momento in cui, grazie ad essa, assesterò il colpo ferale al recalcitrante oggetto. È perfetta, la mia arma. Cilindrica, robusta, leggera, cava. La sua lunghezza è quella giusta: quaranta centimetri. La sua larghezza è quella giusta: riempie perfettamente la mia mano, richiusa e serrata su essa. È micidiale. Sembra forgiata allo scopo da un’intelligenza antica. Armato di essa mi inchino verso il mio dovere, la dirigo sicuro verso il legno e, facendo leva con salda impugnatura, sistemo il tacco nella posizione prestabilita. È fatta. Le membra si rilassano mentre lentamente mi risollevo. Staziono così per qualche istante, indugiando con lo sguardo ora al lavoro compiuto, ora al cilindrico utensile che adesso riposa inerte nella mia mano. E l’occhio mi cade, dopo tanti anni, sulle scritte che compaiono lungo la sua superficie laterale: Università degli Studi di Pisa… Gent.mo Dr. Luca Ronchi… Il presente involucro contiene esemplare originale del Suo diploma di laurea.
E poi dice che la laurea non serve. Caz.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
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Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
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