La zampata di Massimo Carlotto, uno dei più bravi noiristi europei, domata teatralmente e rilanciata in un incubo da palcoscenico dalla serrata confessione di Miana Merisi, tanto coinvolgente nella sua recitazione, mentre con gesti emblematici ma effettivamente truculenti massacra a coltellate la sua unica figlia, da aprire la botola dell’inferno, cioè farti intravvedere per un attimo il mondo vero nascosto dietro i titoli che i giornali appioppano ai mille inspiegabili “drammi della follia”. Davvero riuscita questa trasposizione teatrale dell’opera di Carlotto “Niente più niente al mondo”, portato con successo all’Astra di Sassari (nel festival “Etnia e teatralità” di Teatro Sassari) dalla compagna Effimero Meraviglioso con il titolo “Volevo vedere il cielo”. A leggere il testo originale dello scrittore viene da pensare che il lavoro di trasposizione della regista Maria Assunta Calvisi non sia stato troppo difficile. E’ un lavoro, questo di Carlotto, che ha già in sé la cadenza e i tempi del monologo, probabilmente l’ha scritto pensando al teatro, genere verso il quale ha mostrato interesse e professionale affinità in altri suoi affascinanti romanzi e novelle. Ma dare vita a un monologo così strutturato non è facile, dove i personaggi citati – dal marito arreso alla figlia deludente perché non vuole fare la velina o accaparrarsi un uomo ricco, dai datori di lavoro della domestica frustrata al personale dei discount che può permettersi di frequentare – sembrano dipanarsi fisicamente nella narrazione affidata alla bravissima Merisi. Tanto brava nell’evocare questo suo mondo e renderlo palpabile al pubblico con toni, accenti, movimenti, pause e ritorni incalzanti, che quasi appare ridondante, ma tutto sommato sorprendente e quindi accettabile, la comparsa in scena della figlia uccisa, muta figura onirica affidata a Michela Cidu. Il lavoro della regista Calvisi è stato quindi soprattutto di interpretazione di un testo teatralmente compiuto più che di adattamento e riscrittura. L’unico pesante spostamento è quello dalla periferia operaia torinese alla borgata romana. Della Torino originariamente pensata da Carlotto resta soltanto il vermouth con il quale la borgatara frustrata si alcolizza. Per il resto, cioè il tono subdolamente crescente che muove dal lamento passivo sino a urlare nello sfogo sanguinolento del dramma, il pignolo arredo scenico, ricco di particolari, che descrive la casa di una donna povera di soldi e di spirito che aspira soltanto alla prima di queste ricchezze, i continui e coinvolgenti passaggi di registro dalla rabbia della denuncia all’apatia della follia consumata, al terrore per il fatto commesso e la preoccupazione di fare trovare il salottino in ordine alla polizia, tutto è nella mani della Calvisi e della Merisi che svolgono ottimamente i rispettivi ruoli aiutati dalle sapienti luci di Stefano De Litala.Carlotto si conferma maestro del noir e del racconto sociale e questa trasposizione ne interpreta compiutamente registro letterario e poetica come hanno testimoniato l’evidente sgomento per l’epilogo e i prolungati applausi del pubblico sassarese.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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