Claudio Lolli era il mio fratello maggiore. Quello che fa delle azioni che tu inizialmente non capisci perché sei piccolo e votato ad altre cose ma poi, quando ti siedi ad ascoltarlo, riesci a comprendere tutta la bellezza che le sue parole e i suoi gesti emanano. Claudio Lolli è stato quello dal quale ho imparato molti passaggi perché ha raccontato – e lo ha saputo raccontare benissimo – i miei anni adolescenziali e irrequieti, i nostri bastardi, stupidi, infiniti e bellissimi anni. La frase che racchiude la nostra storia – anche recente – è dentro la sua più bella canzone “Ho visto anche degli zingari felici”, quella frase che ci ha segnato – e ci segna – da sempre e per sempre: “E’ vero che non ci capiamo, che non parliamo mai in due la stessa lingua”. Claudio Lolli è stata la nostra coscienza, quella di giovani ed impellenti comunisti votati alla piazza, al pugno chiuso, votati ad una felicità che non sapevamo di possedere. Noi, quelli che “abbiamo tanto da fare, che non facciamo mai niente”, noi che ne abbiamo fatto di piazze ad urlare, ad essere convinti che tutto quello fosse giusto e necessario. E lo era, per le stragi che quegli anni ci piovevano dentro le nostre vite: Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, Ustica e poi Bologna. Noi che “eravamo davvero forti” ma il problema era “farlo capire ai morti”. Noi, che abbiamo imparato ad amare Gramsci anche grazie a Claudio Lolli e alla sua bellissima “quello lì”. Noi, che amavamo giocare e bere il vino, scherzare e ridere, a dire che tutto era politico e il privato non esisteva, noi che cantavamo a squarciagola “piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza”. Ed eravamo davvero pazzi. E felici. Come gli zingari, eravamo liberi e profondamente stupidi. Come gli adolescenti. Poi accadde qualcosa. Qualcosa che incarognì la vita: l’impotenza di non riuscire più ad essere maggioranza e la consapevolezza di appartenere solo ad una sparuta minoranza. Claudio Lolli non era famoso rispetto, per esempio, ad un altro Claudio che imperava con il suo piccolo grande amore. La nostra piazza bella piazza era, in realtà una piazzetta, un piccolo ritrovo di menestrelli e poeti, di gente che provava a ragionare sul mondo mentre gran parte del mondo virava verso la maglietta fina, tanto stretta al punto che si intravvedeva tutto. Dal nostro orizzonte, dal mio e da quello di Claudio Lolli si capiva, invece, l’arte dello stare dalla parte del torto, forse per la paura di crescere o di non riuscire più a prendere quella piazza e farla ballare. Ci fu qualcosa che incarognì la nostra storia: furono le brigate rosse e, ancor prima Lotta Continua, Potere Operaio, quella piazza non più bella ma dura e squadrista. Claudio Lolli provò a raccontare anche questo terribile passaggio attraverso un disco molto bello ma denso di sconfitte: “Disoccupate le strade dai sogni”. Era il 1977, l’anno degli indiani metropolitani, della manifestazione contro la repressione a Bologna. Era l’anno dove i miei 18 anni incontravano i compagni e le compagne, anche quelli e quelle a venire, dove tutto pareva a portata di mano, potevamo erigere monumenti ai nostri sogni, potevamo provare ad esserci, potevamo davvero finire di aspettare Godot. Non era così e lo sapevamo, ma non lo potevamo dire, non potevamo buttare la bellezza di essere felici. Come gli zingari. Claudio Lolli provò a dircelo che quel passaggio era difficile, forse impossibile, quel passaggio dove l’alba era livida e gli operai si stavano chiudendo in loro stessi, dove la socialdemocrazia era diventata un mostro senza testa. Però ritorno a quel disco che è stato, per me, come un libro speciale da tenere sul comodino: Claudio Lolli è , soprattutto, “ho visto anche degli zingari felici.” Quando ieri ho saputo della sua morte sono andato subito a risentire quel disco che non finisce mai, le tracce sono tutte unite, quelle parole bellissime, struggenti, appiccicate al cuore. Sono ritornato a quei giorni, a quando tutto sembrava facile, possibile, tutto pareva folle e dolcissimo. Sono ritornato a cantare “la morte di una mosca” e mi sono commosso perché la ricordavo tutta a memoria. Un disco pieno di sax, flauto traverso e malinconia. Un disco sulla sconfitta, sulla bellezza della sconfitta, sulla consapevolezza della sconfitta, gonfio di contraddizioni, noi piccole mosche non avevamo dignità neppure da morti: anche quel pssaggio appartiene ai potenti. E poi Anna di Francia, la bellezza dell’amore, la voglia di farlo, la paura di farlo, “Anna che mi porta via, si infila in un’osteria, forse stasera ha voglia d’amore”. Quella canzone fatta per ridere e piangere e per accarezzare. Chissà dove sarà la cultura operaia. L’ho pensato anche io osservando la follia di Anna Rita che chissà dove sarà finita. Me la ricordo quella sera, con il disco da ascoltare, con Claudio Lolli come guru assoluto, con la voglia di esserci, con lei imprendibile più di un momento, che riesce a dare un bacio alla piazza e poi se ne va. Quel disco, quella canzone, quel flauto che camminava tra i nostri corpi impacciati nella foga di due stupidi diciassettenni e nella voglia di essere felici. Con quel disco feci, per la prima volta, all’amore. Lo feci in maniera privatissima e capii, da quel momento, che non avremmo mai vinto con la nostra strana ideologia. Capii che anche un comunista poteva abbracciare e non si doveva vergognare. Capii che non occorreva essere la consolazione di nessuno ma, per una volta almeno “la nostra libertà e la piazza dolce di questa città”. Con Claudio Lolli se ne va un pezzo della mia vita. Importante, imprescindibile da ciò che poi sono diventato. Di Claudio ho amato la sua coerenza, la sua voce sbagliata, la sua musica essenziale, le sue parole che hanno disegnato un pezzo di strada. Ho anche capito che era inutile aspettare Godot perché, un po’ come i ragazzi protagonisti del film Ecce Bombo di Nanni Moretti, aspettavamo che nascesse l’alba ad ovest. Ecco: Claudio Lolli, mio fratello maggiore, mi ha insegnato che si può ancora ballare dentro la piazza e urlare a tutti quelli che ci sono passati con le sue canzoni: “siamo noi, a far ricca la terra, noi che sopportiamo la malattia del sonno e della malaria,” siamo noi a continuare a credere in quella strana utopia che è vivere insieme senza nessuna distinzione di colore e di nazionalità: sarebbe ora di riprenderci la vita, la terra, la luna e l’abbondanza.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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