Sono bravi i terroristi a farsi i selfie da caricare sui social, come degli eroi di un fumetto perverso di chissà quale storia mostruosa. Mitici personaggi di un videogioco che promette vergini in paradiso, come premio se distruggi vite umane in Occidente. Sono fotogenici, mediaticamente gradevoli. Hanno la faccia simpatica. Così Omar Mateen, che dalle foto in rete nasconde senza fatica le orribili idee di morte che perseguiva: un sorriso ammiccante, che Gianna Nannini avrebbe definito «bello e impossibile, con gli occhi neri e il tuo sapor mediorientale», ma con un odio così distruttivo da fare 50 vittime innocenti al Pulse, un locale gay ad Orlando, Florida.
Non era una conoscenza nuova per l’Fbi, era già stato interrogato due volte, ma nessun elemento fu sufficiente per accusarlo di terrorismo, così il caso venne archiviato e lui ha potuto acquistare legalmente (già, perché in America per legge è possibile anche questo!) un fucile e una pistola.
Più le indagini prendono corpo però, più si aggiungono particolari sulla sua vita che rendono questa tragedia un misto tra disagio psichico e ideologia integralista: il killer frequentava quel locale da settimane, i sopravvissuti lo descrivono come un tipo solitario che, appena abusa di alcol, diventava molesto. Altri l’hanno riconosciuto tra i profili di una chat gay. Anche la moglie lo aveva lasciato per gli stessi motivi: quel ragazzo aveva troppi problemi che non voleva affrontare e il suo unico strumento per relazionarsi col mondo era diventato la violenza. L’odio verso se stesso si era trasformato in odio verso tutti, avvicinandosi così alle idee del Califfato.
Sicché la strage di Orlando è certamente una storia di straordinaria omofobia (interiorizzata, perversa e distruttiva), ma nello stesso tempo non lo è. O meglio, non possiamo leggerla solo in quel modo. L’omofobia è un dispositivo culturale molto più subdolo e articolato che il potere gestisce a suo comodo. Nel senso che se da un lato abbiamo un killer che con premeditazione ha ucciso degli omosessuali, dall’altro Omar deve rappresentare ai nostri occhi qualcosa di più terribile: contraddizioni, errori e paradossi che oggi siamo costretti ad affrontate tutti, gay o etero, che ci piaccia o no. Omar era solo una traccia, una pedina di un disegno più ampio contro la liberà di tutti. E se ieri ognuno di noi voleva essere Charlie per solidarietà, oggi dovremmo dirci tutti gay, lesbiche e trans, anche se qualcuno si vergogna giacché l’omofobia non è morta soprattutto in Occidente, con o senza terroristi. Anzi, essa è annidata dove uno meno se lo aspetta, anche se è più comodo fare distinzioni, vedere i gay in piazza a piangere i loro morti come una parata di marziani che vivono appunto su un altro pianeta.
Che l’Islam, integralista e non, infatti pratichi l’omofobia più di ogni altra religione, come elemento politico chiave per non offendere il profeta, è cosa nota a tutti, anche se molti sostengono che qui la religione non c’entra. Sciocchezze: nei paesi islamici, alcuni dei quali nostri alleati per combattere proprio il terrorismo, gli omosessuali nelle migliori delle ipotesi finiscono in carcere. L’Isis condanna a morte chi commette questo che per loro è un grave reato. Se sono dei bravi o cattivi musulmani, poco ci deve interessare. Sarebbe disonesto piuttosto se non si dicesse che i tre monoteismi senza distinzioni combattono l’omosessualità da sempre e in generale. Certo, il cattolicesimo oggi non miete più vittime come un tempo e non ha mai praticato stragi per dissuadere dalla “pratica contro natura”. Il cattolicesimo si limitò in passato al rogo e alla tortura, oltre che ad altre strutturate violenze domestiche. Se oggi però la Chiesa non è in grado di ostacolare il cammino verso la libertà, è bene ricordare che lo dobbiamo al processo di secolarizzazione attivato nel Settecento dall’Illuminismo. In Occidente si può essere laici, atei, donne libere e anche omosessuali liberi. Si può essere persino musulmani ed essere rispettati, pensate un po’. Ma questo a Omar evidentemente non bastava. Lui per annientare se stesso, ha abbracciato un’ideologia religiosa perversa di chi vuole cancellare tutti coloro che non vi aderiscono.
Ora, se queste sono le premesse, risulta abbastanza facile trarne anche le dovute conseguenze. Il lavaggio di cervello che i sostenitori dell’Isis subiscono, spinge a distruggere qualunque cosa ci sia intorno e da persone che riducono in schiavitù e stuprano sistematicamente le donne, c’è da aspettarsi ben poco. L’odio per «due gay che si baciano» (per citare l’episodio che riporta la stampa) è qualcosa di più di una scintilla che fa scattare una strage. È il baratro, è il salto nel vuoto.
Però proprio tutto questo ci deve spingere a guardare la questione da un altro punto di vista che inserisce l’omofobia distruttiva di Omar in un disegno politico contro la libertà tout court e quindi anche di chi omosessuale non è, e che oggi si vergogna di scrivere sul proprio profilo Facebook «Je suis gay!» (l’omofobia è dura da sradicare, ovunque!) perché i luoghi delle stragi assumono un significato simbolico fondamentale che non possiamo nasconderci, per quanto terribili. I paradossi non sono solo di Omar, un cittadino americano integrato. I paradossi sono del mondo che ha alimentato il terrorismo da un lato e usato da sempre l’omofobia dall’altro, basta pensare che alle vittime superstiti di questa tragedia occorre sangue, ma per una legge approvata trent’anni fa negli Stati Uniti, gli omosessuali non possono donarlo.
Riflettiamo dunque con attenzione su tutti gli elementi che abbiamo, partendo dalle stragi passate e ormai quasi dimenticate, come le sue vittime:
Parigi, 7 gennaio 2015. La sede della rivista satirica Charlie Hebdo è il sito ideale per una nuova generazione di atti terroristici contro l’Occidente. Dodici persone perdono la vita e undici rimangono ferite (poco importa se andassero a uomini o donne). Qui i terroristi colpiscono quel luogo in cui la libertà di pensiero ha costruito la sua principale dimora. La sede divelta e cosparsa di sangue di quella rivista, infatti, ci dice qualcosa di essenziale, ovvero che tutte le redazioni sono il simbolo della libertà, perché grazie a questa libertà di pensiero noi siamo l’Occidente. Se non fosse così, saremmo in un altro continente. Invece noi viviamo di questa libertà fondamentale, me compreso che adesso sto scrivendo, grazie al fatto che sono libero di esprimere il mio pensiero (e la mia omosessualità), molto banalmente. I terroristi volevano comunicarci che non sarà più ammesso che «il dire profano», ovvero umano e libero di un vignettista (o scrittore, giornalista, filosofo), possa offendere o criticare quello che loro ritengono «il dire sacro». Questo è fondamentale, ripeto, sia per un integralista che per chiunque altro osservi un credo.
Parigi, 13 novembre 2015. Dieci persone fra uomini e donne, sono responsabili di tre esplosioni nei pressi dello stadio e di sei sparatorie in diversi luoghi pubblici della capitale francese, fra le quali la più sanguinosa avvenuta presso il Bataclan, durante un concerto rock. 93 persone rimangono uccise. Chissà quanti gay o lesbiche c’erano in quella sala che diventa teatro della seconda atroce violazione simbolica che abbiamo subito. Perché il rock per noi è da sempre cultura, pensiero, memoria storica. Il rock si lega ai passaggi fondamentali della storia, del nostro stile di vita, dagli anni Sessanta a oggi. Nel rock noi abbiamo il nostro sangue, il nostro sound inteso come il nostro quotidiano movimento. Noi siamo gli eroi che cantava David Bowie, il ragazzino che imita il grande boss Bruce Springsteen. Noi siamo John Lennon, Price e gli U2 che sognavano e sognano un mondo migliore e colorato di pace.
Il punto è che la pace non serve a chi semina terrore e si serve di gente come Omar, fragili soggetti manipolabili, schiacciati e da scagliare contro l’altro considerato sempre nemico.
Colonia, 1 gennaio 2016. Durante la notte di capodanno, molte donne vennero circondate, palpate, molestate e derubate da un migliaio di uomini ubriachi, tra i 15 e i 39 anni, di origini arabe o nordafricane. Questo non è un attentato vero e proprio ma simbolicamente quegli «uomini», ovvero quei maschi, hanno fatto qualcosa di molto grave: hanno raccontato il loro disprezzo per tutte le donne. Per loro, infatti, misogini oltre che brutali, la donna è il niente che deve camminare senza farsi neppure riconoscere. Per chi aderisce al loro sistema perverso d’idee, la donna non deve mai alzare la testa, deve solo figliare, rimanere schiava del marito, eseguendo gli ordini.
Arriviamo così a Orlando, 11 giugno 2016.
Tutti sanno che in questo periodo si mobilitano i movimenti omosessuali per i Pride che in ogni parte del mondo con gioia rivendicano la libertà di amare e di essere. Una libertà che non è più un sogno ma che lesbiche, gay e trans si sono guadagnati con dure battaglie per i diritti civili, giorno dopo giorno, a partire da quel famoso 27 giugno 1969 quando allo Stonewall Inn di New York, qualcuno decise che era arrivato il momento di dire basta!, basta con l’omofobia.
Ecco che allora il quadro si completa e che ogni tassello va al suo posto e che l’omofobia di Omar, che l’ha dilaniato a tal punto da odiare il mondo, acquista un significato diverso anche per chi oggi rimane indifferente perché troppo impegnato a seguire gli Europei o qualche scimmia che si diverte a spaccare vetrine o sedie sulla testa di chi tifa per la squadra avversaria.
Questo non è un attacco «omofobico» in sé, non è un attacco alla comunità gay in quanto tale, ma lo è se pensiamo che gli omosessuali sono un simbolo di quel progresso civile che ci riguarda come Occidente e che riguardava anche Omar. Sicché la tragedia a Orlando in Florida è un attacco alla libertà non solo degli omosessuali ma alla libertà di tutti. I terroristi ancora una volta, ci hanno detto che è un peccato la libertà in sé, come concetto, come principio filosofico, come spinta etica, come pratica di vita. Allora sì che possiamo parlare di omofobia. Perché questi dispensatori di morte e di terrore hanno comunicato qualcosa di ancora più terribile, rispetto a un semplice disprezzo verso lesbiche, gay e trans. Hanno voluto ricordare all’Occidente che Voltaire e tutti i suoi nipotini, magari “culattoni”, non sono altro che dei bastardi, perché il profeta non ammette uomini liberi. Ammette solo uomini come Omar, ovvero uomini capaci solo di negare se stessi e odiare perché incapaci di amare.
Dunque, se volete combatte il terrorismo, ovvero l’idea di morte che c’è dietro, giacché l’assedio prosegue senza requie (a Magnanville, sobborgo a una cinquantina di km da Parigi,lo jihadista Larossi Abballa uccide a neppure tre giorni dalla tragedia di Orlando, due poliziotti e l’Isis rivendica) dovete prima di tutto sentirvi un po’ froci anche voi, voi che seguite le partite di calcio in qualche luogo pubblico protetto dai militari, indifferente e così serenamente normali. E non per combattere «l’omofobia in sé» o per la comunità Lgbt – acronimo di Lesbica, gay, bisex e trans – se è questo il vostro problema, ma per la libertà come fine ultimo dell’uomo, giacché i terroristi considerano “froci” tutti quelli che sono liberi e che hanno un sogno di libertà.
Detto ciò, che le vittime di questa tragedia, Omar compreso, come le vite di tutte le altri stragi, siano qualcosa di più di uno retorica vuota e di uno sciacallaggio mediatico durante le elezioni Presidenziali negli Stati Uniti e le amministrative italiane.
Perché tutti siamo un po’ Charlie e tutti siamo un po’ Orlando, anche se vi vergognate e siete troppo concentrati a seguire la nazionale che gioca.
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