Sarà così improponibile un secondo funerale? Sarà solo rinnovare inutile dolore o sarà una forma di rispetto?
Quelli che se ne sono andati in questo periodo maledetto andrebbero salutati un’altra volta, con la dignità e gli abbracci e le lacrime condivise che si devono ad ogni persona che lasci questo mondo. Dignità, abbracci e lacrime condivise che questo periodo maledetto ha negato ad ogni addio.
Un funerale come si deve dovrebbe essere un diritto di tutti, di chi muore e di chi ha bisogno di esserci, di accarezzare una bara o posarci un fiore sopra. Io non credo che un virus possa portarsi via, senza appello, anche una delle più antiche e nobili manifestazioni della civiltà: il dovere di onorare i morti, il bisogno di essere comunità nel momento in cui un essere umano lascia questo mondo. Oggi come trentamila anni fa, al tempo dei Cro-Magnon. Funerale religioso o no, non è questo che importa.
Ho appena finito di parlare con un amico che oggi ha salutato per l’ultima volta un fratello. Un uomo troppo giovane, che ha finito di soffrire dopo mesi di agonia. Agonia ingiusta come ogni agonia, ma questa resa più ingiusta dall’isolamento in un ospedale blindato, dai troppi momenti di solitudine imposti a lui e a chi gli voleva bene da questo inevitabile ed orribile obbligo di mantenere le distanze. Mi ha raccontato di questo strano funerale con le boccette di disinfettante e i rotoli di carta casa disseminati ovunque, della gente con guanti e mascherine. Mi ha parlato dell’impossibilità di contenere le manifestazioni di affetto, di trattenere l’istinto di buttare le braccia al collo di chi piange il proprio parente. Ogni tanto, mentre parlavamo, sentivo condoglianze che finivano puntualmente in pianti inconsolabili.
Mi ha raccontato di quelli giunti in paese dai sentieri e dalle strade bianche, per l’umano e comprensibile bisogno di esserci, di affermare anche dopo la vita un’amicizia, qualcosa in comune, una solidarietà. Per quanti hanno osato, altrettanti non hanno potuto. Forse bisognerebbe pensare ad una seconda occasione. Per salutare come si deve chi non c’è più, per non lasciare modo al virus di stravolgere definitivamente i connotati della nostra civiltà.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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