Le Regionali del 2019 resteranno nella storia della sinistra sarda. Abbiamo provato tutte le emozioni di circostanza, dalla speranza alla strizza, a quella specie di malinconia che prende alla fine di una battaglia persa. Cose viste spesso negli ultimi venticinque anni. Ma c’è dell’altro.
Di tutte le storie sentite dopo lo spoglio, due vanno raccontate. La prima: una comunità di operai senegalesi, radicata in Gallura da anni, ha deciso di votare Salvini. Temono le migrazioni eccessive verso l’Italia. Il benessere che hanno faticosamente conquistato non è abbastanza solido da poterlo dividere con altri. La seconda: una persona di quelle che fanno più fatica, più di un operaio senegalese ben integrato, mi ha detto con orgoglio di aver votato Salvini e di aver convinto a farlo anche i figli e gli amici dei figli, che non avendo le idee chiare hanno chiesto consiglio a un adulto di cui si fidano.
Io non ho potuto ribattere nulla, e se ci avessi provato non avrei saputo cosa dire. Il mio silenzio era qualcosa di sinistra. Nel senso che era un silenzio condiviso, un silenzio medio, di circostanza. Un silenzio da stanchezza. Se la sinistra però è stanca, se non ha argomenti con cui raggiungere chi si sente in bilico e convincerlo a votare a sinistra, non ha più alcun senso di esistere, non ha più una missione da compiere in quanto sinistra, e deve prendere atto di essere diventata altro.
Nella bacheca di un amico virtuale, persona squisita e di grande cultura, circa un mese fa comparve il racconto di una bella cena tra amici. Vi si descriveva un ambiente colto, partecipato da gente di valore, di probabile orientamento progressista: medici, magistrati, insegnanti, avvocati, imprenditori. Chiudeva il racconto una riflessione sul fecondo scambio di idee tra i convitati e la necessità di puntare sulla cultura come investimento per la salute della nostra traballante democrazia.
Impossibile non essere d’accordo. Tuttavia qualcosa strideva, e ho provato a dirlo. La situazione descritta rappresentava una bolla, simile a tante altre in cui siamo passati. Un’oasi felice rispetto alla media di quello che c’è fuori. Ma la vera differenza tra la bolla descritta e quel “fuori” non stava, e non sta, nella quantità di cultura, ma nel reddito pro capite.
Sembra inelegante sottolinearlo, e anche questo è un problema che a sinistra dovremmo porci, quello della “ineleganza” di certi problemi, ma è così. Quelle che ci sembrano bolle culturali sono in realtà, banalmente, bolle economiche riservate a redditi medio alti. Chi sta fuori da certe bolle non è necessariamente ignorante o incolto, ma più probabilmente è al verde, specialmente in prospettiva. Chi sta fuori da certe bolle è chi, all’interno di un sistema spietato e competitivo e nonostante i libri letti e i titoli conseguiti, non ce l’ha fatta. A fare cosa? A garantire a sé e ai propri cari un minimo di serenità rispetto alle scadenze del quotidiano.
E siccome se c’è una cosa spietata è la vita quotidiana, ecco che fuori dalle bolle diminuiscono anche le occasioni di scambio e condivisione di idee, perché si passano le giornate, tutte le giornate, a correre dietro un lavoro e un reddito insufficiente, a far quadrare i conti, a cercare di capire se la rottamazione di una cartella potrà fare la differenza tra il pignoramento della macchina e il poter continuare a utilizzarla. E dopo che hai corso tutto il giorno e pensi già alle corse che ti aspettano l’indomani, non hai neanche il tempo di cercarti un cinema (ammesso che ce ne sia uno nel raggio di pochi chilometri), o di prendere in mano una chitarra o un libro.
Sempre a proposito di ineleganza, un’altra cosa che a sinistra dovremmo valutare è che ormai ci viene molto facile indignarci ma molto difficile incazzarci. Non siamo più arrabbiati verso nessuno, neanche verso Salvini, che comunque continuiamo a trattare meglio di come trattiamo il Movimento 5 stelle, quasi che la sconfitta di questi sia sufficiente a nascondere il dramma dell’ascesa leghista. Siamo “indignati ma dignitosi”, e ce lo facciamo bastare, mentre fuori dalle nostre bolle la rabbia aumenta.
Ma noi la rabbia non riusciamo spesso neanche a vederla e nei nostri libri, quelli che abbiamo scelto di leggere, non è sempre contemplata, a meno che non sia geograficamente o storicamente lontana. Ma la rabbia c’è, ed è tutta legata alla distribuzione della ricchezza e agli esiti di quella competizione di cui dicevo sopra. La rabbia un tempo la scandiva soltanto “La locomotiva”… diceva Vecchioni parlando a Guccini. Forse, per rompere la bolla e far circolare veramente certe idee, dobbiamo subito, da oggi, tornare a riflettere con rabbia sulla distribuzione della ricchezza, anziché farci ammaliare dall’idea che chi ha perso la gara è un povero ignorante arrabbiato. Dobbiamo riprendere a ragionare di diritti sociali e economici oltre che civili: restituire sacralità a cose che un tempo ce l’avevano e che abbiamo voluto dimenticare: l’acqua pubblica, la sanità diffusa, l’istruzione senza contagocce, un lavoro non precario. Dobbiamo riprendere a sospettare del potere quando è troppo e troppo concentrato. Dobbiamo tornare a condannare apertamente l’esportazione della democrazia che gli USA non hanno mai smesso di praticare, quando c’è più di un motivo per ritenere che non è per amore della democrazia che lo fanno.
Tutte queste cose ne hanno una in comune, una sorta di imbuto in cui, più o meno dolcemente, tutti siamo stati attirati e da cui non ci è quasi più possibile prescindere: l’idea ormai più che religiosa che il tritacarne economico in cui viviamo sia un assoluto inevitabile e che ad esso non vi sia alternativa alcuna. Esiste la letteratura, ci sono esperienze politiche in corso, negli USA, in Gran Bretagna, in Francia, esistono leader politici che non ne parlano usando le armi ma prendendo la parola dentro le istituzioni. E può succedere anche da noi. Il futuro o la morte definitiva della sinistra sarda, e con essa di tante altre speranze, passano da questo imbuto.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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