Ci sono certe città, o quello che resta di loro, che anticipano i tempi. Quelli brutti, purtroppo. Ché quelli belli, in Italia, li abbiamo già spesi e nessuno ce li ridà indietro. Iglesias è una di queste città. Ora è un paesotto, prima no. Prima era la città che accoglieva la più grande industria mineraria d’Europa. Con tutto ciò che questo, in termini di quantità e qualità nella e della vita quotidiana ha potuto rappresentare. Sia per chi ci campava, ad Iglesias, sia per chi la guardava, da fuori.
Come tutte le cose della vita, anche le città hanno la loro curva vitale. Che spesso è una gaussiana: cresce, tocca l’apice e, infine, declina. Inesorabilmente declina. A me è toccato il destino di nascerci nello spazio e nel tempo del declino, ad Iglesias. E tutto ciò che del declino ha un senso, bisogna declinarlo non solo nei numeri (che sono importanti), ma nello spazio e nel tempo della vita quotidiana dei suoi abitanti. Ché il declino, come il successo, è come la rugiada: si posa sulla pelle della gente e la penetra in profondità, la gente. E se la rugiada è velenosa, la avvelena, la gente, trasformandone la mente, il cuore e anche lo spirito. Sempre che lo si abbia, l’uno o l’altro.
La curva del declino di una città non si coglie solo nella parola “crisi”. Troppo solitaria la parola crisi, bisogna sempre addizionare altro: crisi economica, crisi politica, crisi sociale, crisi etica. O, se si è pigri, si può tentare la via della sintesi, sprecando meno lettere: crisi socioeconomica, sociopolitica e così via… La curva del declino non è solo “crisi”, cambiamento traumatico, ma anche stasi, fermo-immagine di molteplici esistenze costrette a qualcosa o al niente da ciò che sovrasta tutti. Il macro, diciamo noi.
La curva del declino, nelle esistenze di molte persone che conoscevo, aveva un nome e uno spazio preciso: Ardau e il suo bar, in piazza Sella. C’erano i biliardi, da Ardau e la gente ci andava a far scivolare il tempo. Ché quando si è senza lavoro, non si studia, non si fa formazione, il tempo è un tragico dono, perde il suo significato ordinatore, non scandisce porzioni importanti e regolari della esistenza quotidiana, ma viene attraversato da sregolatezza e senso di inutilità. Dal vuoto, insomma.
Tutto scorre lento, ché le persone hanno dimenticato come si fa ad avere fretta e, soprattutto, il motivo di averla, la fretta. E al posto della sirena che a mezzogiorno segnava la pausa non solo per i minatori ma anche per le loro famiglie immersi nella vita cittadina, la scansione del tempo è dettato dal giro degli aperitivi (la mattina), degli amari (la sera) e dal turno dell’uso del biliardo. Ché bisognava prenotarsi in largo anticipo, tanti erano i né-né, o i neet, ad Iglesias: senza lavoro, senza speranza di lavoro, senza scuola, senza voglia di scuola, senza formazione, senza incentivi alla formazione.
Era un laboratorio, il bar di Ardau. Ora lo vedo, che era un laboratorio. Per tutti quei sei milioni di italiani che non hanno lavoro e quei quasi tre che neanche lo cercano. E non avendo un lavoro tutto avviene così, come capita, senza intenzionalità, progetto, uso sensato di ciò che la classe operaia ci ha messo secoli per conquistane porzioni a proprio uso e consumo non produttivo: il tempo. Ché quando hai un lavoro il tempo diventa risorsa preziosa da usare in modo ragionevole: per costruire relazioni professionali e amicali, conservarle, valorizzarle, e dentro quella rete di contatti quotidiani sùggere semi e mattoni di significato che vanno ad edificare la propria identità, il proprio posto nel mondo. Anche se il mondo era piccolo, come Iglesias.
E ora ce li vedo, milioni e milioni di italiani, senza quella formante esperienza quotidiana che è il lavoro, nel senso di ciò che dà proprio “forma” ai singoli e a ciò che i singoli percepiscono, desiderano, immaginano del mondo. Non solo ciò che subiscono, del mondo. Ché un mondo senza la possibilità di sperimentare la propria essenza identitaria in un impiego, solo effimeri e banali attrezzi di conoscenza può dare agli uomini e alle donne: il consumo di oggetti, di servizi, di vane speranze e vuote illusioni.
Come vuoti e pieni di illusioni erano i discorsi di chi portava il proprio corpo da una parte all’altra della piazza o della principale via del centro storico, che paradossalmente viene chiamata “Nuova”. Un ritmico trascinarsi da un capo all’altro senza alcuno scopo se non far passare il troppo tempo a disposizione, e far inghiottire al proprio compagno di struscio i già citati racconti, le già raccontate storie, le già storiche sconfitte di una vita che procede solo grazie all’inerzia del tempo e alla speranza di una occasione di migrazione o di un gesto di elemosina da parte dei potenti locali.
Partire o morire, questo il problema. Restare pietendo e, spesso, piegando se stesso al rango di clientes, o partire sperando che altrove sia diverso, salvo poi scoprire che tanto diverso il mondo non lo è, salvo qualche finestra di strutturale ottimismo sociale che valorizza competenze ed intelligenze e non solo voti elettorali in futura dote.
Milioni e milioni di persone, senza altro che la pensione dei vecchi come àncora di sopravvivenza, angoli di buio lavoro nero in nera economia, sogni di edificazione di un percorso di vita adulta stuprati sul nascere e gettati al cesso. Troppa fatica, anche sognare diventare autonomi, adulti, padri, madri e, soprattutto, lavoratori. Ché senza lavoro la dignità del vivere è vuota parola. Senza lavoro è solo esistere, non vivere.
Già visto, tutto questo. In piccolo, da Ardau, e nel pendolare su e giù, senza senso, da un capo all’altro di piazza Sella, in una ex città, ora solo paese stremato. Piccolo laboratorio di ciò che siamo diventati, purtroppo.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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