Intellettuali, operatori dell’informazione e ambientalisti sardi da qualche anno stanno denunciando la sconfortante prospettiva di un’isola ridotta a colonia energetica, privata delle proprie vocazioni agricole per vedere destinati i propri suoli a riserva di carburante. Cardi, canne e chissà quali altri vegetali da bruciare per trasformarli in energia, ad uso delle multinazionali. A parte qualche voce isolata, questo scenario è considerato negativamente dalla quasi totalità dei commentatori. Sono d’accordo, a patto che si faccia un’analisi complessiva del problema.
Mi si permetterà un’obiezione da uomo della strada. Queste terre, nel sassarese o nel Sulcis, le multinazionali dell’energia intendono occuparle abusivamente? Se ne sono appropriate con qualche raggiro?
No. Le affittano da sardi pienamente consapevoli, per i quali questa occasione è l’unica vera possibilità di avere un reddito da quelle porzioni di campagna spesso incolte. Oggi, nel 2014, i sardi affittano o vendono le loro tanche come, nel 1962, altri sardi cedettero i loro terreni perché imprenditori stranieri vi potessero edificare la Costa Smeralda. È passato mezzo secolo come nulla fosse: allora come oggi, molti sardi pensavano a sbarazzarsi delle loro terre, considerando quell’opportunità una manna dal cielo. Sbagliano? Mettetevi nei loro panni, prima di giudicare. La terra evoca sofferenza e schiene spezzate al gelo o sotto ad un sole impietoso. Evoca sforzi inutili per raccolti spesso miseri.
Io non so piantare un orto né una vigna. Mio padre me lo avrebbe anche insegnato, ma io appartengo ad una generazione che si illudeva di risolvere la vita stando seduta dietro una scrivania. E naturalmente quest’arte, non conoscendola, non ho saputo trasmetterla a mio figlio. Oggi penso che se recuperassimo il nostro rapporto con la terra, forse questa facilità nello svenderci al primo arrivato non ci apparterrebbe. Un pezzetto di terra che offre pomodori, patate, cipolle, frutta non è solo fatica: è anche cibo, è anche un pezzetto di libertà in più, è un briciolo di sicurezza in tempi di magra.
Si diffondono gli orti civici ed io sto pensando di convertire il prato attorno a casa. Solo che questa è un’operazione culturale da avviare sin dai primi anni dell’istruzione pubblica. Ogni scuola, in Sardegna, dovrebbe avere un orto, ogni ragazzo dovrebbe saperlo piantare e saper piantare un albero da frutto, prima dell’ora di informatica e dopo l’ora di inglese o educazione tecnica. Ai nostri ragazzi dobbiamo insegnare che la terra è vita e libertà. Se no, rassegniamoci a vederla incenerita per gli interessi di qualche oscura multinazionale.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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