Si svegliò di soprassalto, non sentiva più sul collo l’alito caldo di lui. Quello sbuffo umido e intermittente che alcune notti le impediva di addormentarsi, ma altre equivaleva ad un morbido abbraccio nel quale rifugiarsi. Uno strano presentimento aveva fatto capolino nella sua mente, una brutta certezza che era partita dalla pancia e aveva raggiunto in un nanosecondo i neuroni. Sapeva, come stranamente si sanno alcune cose senza avere alcun elemento di deduzione, che non l’avrebbe rivisto mai più. Lui aveva deciso di andarsene così, furtivamente, come un vigliacco. Come un qualsiasi squallido bastardo. Ora lei era fuori dai giochi.
Si voltò, era ancora immersa in quel limbo indistinto dove ciò che ci circonda si mescola alla risacca di un sogno che prende il largo. Stirò i muscoli, ancora intorpiditi dalla scomoda posizione del sonno, allungò lo sguardo e accanto a lei era adagiato il vuoto, in quel giaciglio e nella sua vita. Per il resto era notte, una notte fonda e piena di niente e ciò che ne restava era solo un’assenza.
Eppure in quella città ci era finita per seguirlo, abbandonando senza remore ogni legame col passato. E lo stronzo se n’era andato via così, senza nemmeno una spiegazione. Forse aveva seguito un’altra, o forse desideroso di riappropriarsi della libertà perduta, o semplicemente era arrivato il momento che le loro strade si dividessero. Così, fatalmente, come fatalmente si erano incontrate.
Ma lei avrebbe reagito, non era una di quelle femminucce senza tempra che si piangono addosso, crogiolandosi nel dolore del ricordo. Si diresse verso il centro. Camminava con passo deciso, da bersagliera, calpestando con forza i lastroni di granito del marciapiede.
Era bella, sapeva di esserlo ed ogni vetrina, nella quale lanciava uno sguardo carico di compiacimento, glielo confermava. Trotterellava per il centro storico, schivava le persone, anzi erano loro a schivarla. Lei coglieva qualche sguardo sprezzante, ma ne coglieva degli altri densi di amorevolezza. Però ciò che la feriva maggiormente erano gli occhi vacui che la guardavano senza vederla, quelli che trapassandola andavano oltre. Come se lei non esistesse.
Girovagò per tutto il giorno, senza meta e quando i morsi della fame cominciarono a contrarle la parete gastrica, imboccò una via che prometteva profumi deliziosi e che, probabilmente, le avrebbe schiuso un paradiso calorico. Camminò rasentando il muro, il buio aveva avvolto la città e lì, in quel vicolo angusto, alcuni ragazzini si erano divertiti con le loro fionde a trapassare le lampadine dei lampioni.
Per quei teppistelli doveva essere stata una soddisfazione incredibile, dopo tanti lanci andati a vuoto, sentire il fragore dei vetri che esplodevano nell’impatto col sasso. E poi la pioggia di schegge che restava lì sull’asfalto, come foglie croccanti che si accartocciavano sotto gli pneumatici della prima automobile che passava.
Ora restavano solo i coprilampade, carapaci di tartaruga privi del loro corpo.
Da un angolo in fondo sbucò un’ombra indistinta, nell’oscurità poteva scorgere solo un passo frettoloso che le andava incontro. Una persiana si spalancò in quel preciso istante e, nel cono di luce, vide che le ombre erano diventate due, tre, quattro. Avevano un incedere minaccioso, accelerarono e prima che potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo, se li trovò tutti addosso.
L’avevano brutalmente spinta nell’angolo più buio, le erano intorno, sentiva il loro alito nelle orecchie. Cercò di gridare, con tutto il fiato che aveva in gola, ma emise un latrato indistinto che nessuno sentì.
Quell’unica persiana, spiraglio di salvezza, si era richiusa.
La stuprarono per ore. Gli animaleschi istinti di quei bastardi si erano accaniti all’altezza del suo bacino. Lei aveva chiuso gli occhi, impotente, con la speranza che tutto avesse fine il più presto possibile.
Ed era strano come sotto quei colpi secchi, incessanti, cadenzati come un martello che spinge un chiodo nel muro, l’unico pensiero che rimbalzava nella sua mente era quello che la riportava al Natale dell’anno prima. Ad una notte magica trascorsa con lui nel sottoscala buio di un palazzo del centro storico.
Se ne andarono quei bastardi, Dio solo sa dopo quanto tempo di bestiali brutalità e la lasciarono lì, distesa sull’asfalto, dolente di un dolore che aveva le sembianze di una mano d’acciaio che frugava nelle sue viscere.
Ebbe la forza per mettersi a quattro zampe e sentì il suo stomaco rivoltarsi in un’improvvisa capriola, mentre un conato spingeva fuori un fiotto acido di succhi gastrici su uno zerbino con la scritta Welcome.
Cos’era diventata la sua vita? Era bastata una sola giornata per pitturarla di un nero più cupo dell’inferno, più fosco del demonio.
Un’idea si era lucidamente fatta strada nei meandri della sua mente, aveva sgomitato un po’ fra le altre, ma ora le sembrava l’unica possibile: avrebbe consegnato alla morte il suo corpo mangiato dal mondo.
Corse frettolosa verso la periferia, dove le automobili non dovevano sottostare ad un vergognoso limite di velocità simile al passo di un uomo. Correva sul marciapiede, un’andatura costante, senza forzature, sostenuta. Ansimava anche, mentre le pulsazioni del suo cuore acceleravano all’unisono col suo passo.
Quando vide il fascio di luce dei fari di una macchina, le sue estremità ebbero uno scatto fulmineo e cominciò la sua corsa a perdifiato.
– E’ ora di farla fin… –
L’assessore stipato dentro la sua giacca perfettamente stirata, nella sua camicia dal colletto e polsini immacolati, parlava al cellulare. I finestrini chiusi rendevano l’abitacolo ovattato, lasciando fuori il rumore dei 180 CV della BMW Five X, comprata coi contributi regionali della legge 28. La luce del display del cellulare si rifletteva sul cranio perfettamente lucido e rasato regalandogli una sfumatura verderame.
-No, tesoro! Stasera non ti posso raggiungere, sto andando ad una cena istituzionale. –
Chiamava tutte “tesoro”, con voce suadente e tono carezzevole. Sorrideva mentre parlava, anche se l’argomento non aveva nulla da ridere, ma aveva letto da qualche parte che l’interlocutore percepisce la differenza. Gli era piaciuta molto ‘sta cosa, da allora era diventata un automatismo: il cellulare squillava e gli angoli della sua bocca si dirigevano verso gli zigomi, disegnando un enorme sorriso.
– Cazzooo! –
Aveva allungato la gamba, affondandola sul freno. Quel dannato ABS, che in altre circostanze aveva impedito che la macchina gli s’imbarcasse sotto il sedere, allungava disperatamente lo spazio di frenata.
Un tonfo sordo all’altezza del paraurti, un guaito di dolore che non arrivò mai nell’abitacolo e poi il buio.
Scese dalla macchina con urgenza:
– Porca puttana! –
Portò una mano alla fronte, uno sguardo al paraurti imbrattato di sangue e si chinò, attento a non sporcarsi, su quel corpo spento i cui occhi già guardavano il nulla.
Pensò che era inutile, a quell’ora non avrebbe trovato alcun veterinario e poi era ormai tardi.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca interna della giacca ben stirata: – Pronto, arriverò con qualche minuto di ritardo: ho investito un cane! – – Guai a voi se iniziate senza di me, eh?! –
Disse con quello stupido sorriso che indossava al telefono. Anche quando non c’era un cazzo da ridere.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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