Era bianco e guardava con astio i due o tre neri che gli facevano concorrenza. Chiedeva l’elemosina e questo razzismo dei poveri è fenomeno piuttosto comune ma che ti colpisce quando ti ci imbatti. Quando sento certi imbecilli che ancora dicono che gli immigrati ci rubano il lavoro, penso sempre che quello è l’unico tipo di lavoro che ci rubano. Comunque quel tipo mi incuriosiva e quando l’ho rivisto entrare in una sala slot, non di quelle tipo Las Vegas, piuttosto di quelle altre il cui ingresso sembra una grotta o un obitorio, beh, allora sono entrato anch’io. Più che entrare, ho guardato di soppiatto, ho infilato la testa tra le grosse tende. E così ho fatto l‘esperienza di vedere l’interno di una sala slot. Le tende mi ricordavano quelle che riparano gli ingressi alla platea di un teatro o di un cinema, ma qui quando le varchi l’unica cosa che ti ricordi il cinema è un panorama simile a quello della fumeria d’oppio nella scena finale di “C’era una volta in America”, il sorriso misterioso e tragico di Noodles, chiuso nel mondo mortale del suo lettino, circondato da altri lettini ciascuno con il suo mondo chiuso e disperato. Ho perso di vista il mendicante bianco che andava lì a spendere le elemosine, ma ho visto tutti gli altri, appena visibili nel locale scuro, ciascuno con il viso illuminato soltanto dalle lucine della macchinetta che aveva davanti. Volti fissi, nessuno che si guardasse intorno, nessuno che parlasse. Un inferno. Avevo spalancato una delle tante botole che ci collegano all’inferno e ci avevo guardato dentro. Poi è arrivato un demonio guardiano. Cioè un tale che si era accorto che non ero un giocatore ma un curioso e aveva occhi che dicevano che era meglio che mi levassi dai coglioni. E lì è finita la mia ispezione nell’interno di una sala slot. Ma credo di avere visto tutto quello che c’era da vedere.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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