Sapete meglio di me come funziona. Dopo il pranzo di Natale avanza tanta di quella roba che si può mangiare per giorni.
Eravamo a tavola, ieri sera; gli stessi di sei ore prima. Ci eravamo infilati in una sfilza di barzellette e indovinelli, perfetti per i bambini, fino a che a un certo punto, non ricordo neanche come ci fossimo arrivati, Roberta ci fa: “Ma sapete il mio papà di che anno era?”.
Giuro, non ricordo di cosa si parlava, ma a quel punto al centro della scena c’era proprio il papà di Roberta. Risponde per noi, alla sua domanda: “Era del 1899. Eh, ha fatto la prima guerra mondiale”.
E lì è partita la storia. Ci ha raccontato che era a Caporetto il 24 ottobre 1917, alla dodicesima battaglia dell’Isonzo. Caporetto, quella vera. Quella che per tutti significa sconfitta totale, ignominia, batosta. Peggio di Waterloo. Quella che costò la vergogna in saecula saeculorum al Generale Cadorna e aprì le porte della storia al Generale Diaz.
Ma non fu Diaz, ho capito oggi, l’artefice del colpo di scena che portò alla prima battaglia del Piave, 20 giorni dopo. Quella riscossa avvenne perché gli uomini al fronte, che sempre più si sentivano carne di porco, mandarono a fare in culo la burocrazia militare e perché i singoli reparti e i loro comandanti ebbero carta bianca. Ma un ruolo di primo piano lo ebbero dei ragazzi, passati poi alla storia come i ragazzi del ‘99, quelle decine di migliaia di coscritti che, men che diciottenni nel ‘17, vennero rastrellati dalle campagne e dai paesi di tutta Italia e mandati al fronte per risollevare le sorti di quella disgraziata armata, in balia dell’intelligenza nemica.
Uno di questi ragazzi era, ma allora non lo sapeva, il papà di Roberta.
Correva il 1917 e lui non aveva ancora compiuto 18 anni.
“Raccontava- ci dice Roberta- che un giorno il Piave era diventato rosso e che i soldati andavano da una sponda all’altra senza bagnarsi, camminando sopra un ponte di soldati morti. Vestiti con divise diverse. Un giorno gli austriaci catturarono un gruppo di italiani e lui era tra questi. Davanti al plotone di esecuzione, l’ufficiale di turno si avvicinò a lui e, vedendo una cosa sbucare dalla tasca della giacca, gli chiese cosa fosse. Lui tirò fuori una foto della sua mamma, su cui c’era una dedica: al mio bambino, partito troppo giovane per la guerra”
L’austriaco gli chiese “Kuanti anni hai?”
“Ne ho diciassette”.
“Ta noi, pampini stanno a kasa kon la mamma”.
Lo tirò fuori dal gruppo e lo mandò via. I suoi compagni vennero fucilati.
Ventisei anni dopo il papà di Roberta era uno dei tanti “anziani” richiamati per la seconda guerra mondale, da parte del regime fascista. Roberta si scusa con noi: “Mio padre non era fascista. Solo che in quegli anni, se avevi famiglia e volevi lavorare, dovevi adattarti, e lui aveva preferito adattarsi”.
Ci racconta che il giorno in cui cadde Mussolini, lui era in giro per le campagne intorno a Milano, con la sua bicicletta, in divisa da lavoro. Essendo arruolato, era vestito da fascista. Quando in città si sparse la voce che il regime non c’era più, i partigiani vennero allo scoperto e iniziarono a presidiare le strade. Sua moglie, la madre di Roberta, si preoccupò subito del fatto che lui non fosse al corrente della novità e che se fosse andato in giro vestito da fascista, i partigiani avrebbero potuto fermarlo e fargliela pagare cara.
Il papà di Roberta, infatti, mentre tornava a casa, vide due uomini in mezzo a un incrocio, tra due vie che correvano in mezzo ai campi. Erano scalzi e controllavano quell’incrocio armati di randello. Lui capì subito che qualcosa di grosso era successo, altrimenti mai si sarebbe immaginato di trovare due uomini scalzi a presidiare un incrocio in pieno giorno.
Le regole erano cambiate, era chiaro, ma ancora non sapeva come e perché.
Avvicinandosi all’incrocio riuscì, con un’accelerata improvvisa, a forzare il posto di blocco: da ragazzo era stato un ciclista di valore. Questo gli consentì di restare in sella alla bici e a iniziare la fuga dopo avere superato i due uomini. Si salvò perché prese subito una strada secondaria e quelli, scalzi, non poterono seguirlo. Il possesso di un paio di scarpe fece la differenza.
Raggiunto un cascinale entrò nel cortile e un contadino che vi lavorava gli confermò che il regime era caduto. Allora lui chiese al tipo se fosse disposto a fare uno scambio: “ti do la mia divisa in cambio di abiti normali, da lavoro”; quello rispose: “Senti, io di camicie nere non ne voglio manco morto, ma i tuoi stivali mi interessano”.
Così il papà di Roberta si ritrovò vestito da contadino, scalzo, e poté tornarsene a casa dalla moglie. In un’Italia non troppo diversa da quella di qualche ora prima.
A tavola non c’è stato nessuno che abbia fiatato, finché Roberta parlava. I miei figli hanno ascoltato tutto incantati. Mentre Roberta tirava fuori questa storia così ferocemente umana, a me son tornati in mente i racconti di guerra dei miei zii e quelli delle mie nonne. So che la vallata in cui vivo ora, è stata quartier generale tedesco e poi americano, durante la seconda guerra mondiale. I tedeschi, dice sempre mio zio, erano tristi come la fame che se li mangiava. “Per quanto noi fossimo poveri, un po’ di cibo c’era. Quando ci capitava di mangiare un’anguria, buttavamo le bucce per terra. I tedeschi le raccoglievano e se le mangiavano. Non ho mai visto uno di quei soldati sorridere, neanche una volta. Mio cugino aveva i maiali e raccoglieva tutti gli scarti per dare loro da mangiare. Siccome sapeva che i tedeschi sarebbero andati a frugare in quel pastone, cercando qualcosa da buttare in corpo, puntualmente ci sputava dentro tutto il catarro che aveva in gola, in segno di disprezzo verso quei morti di fame.
Quando ci fu l’armistizio, quelli se ne andarono e poco dopo arrivarono gli americani. Come se niente fosse”
Ricordo che qualche anno fa, sarà stato il 2011, mentre vangavo l’orto, saltò fuori un bottone di metallo. Sembrava il pezzo di una divisa. Aveva dei fregi militari, delle ancore, delle bande al vento. Il soldato che lo aveva perso avrà avuto un volto, un nome, un paese di origine e una famiglia che lo aspettava. Chissà se è riuscito a rivedere i suoi cari o se è morto prima, magari sul Trieste, o chissà dove. Non lo saprò mai.
So solo che in tanto parlar male dell’Europa, io posso scrivere, parlare e coltivarmi l’orto. E che da settant’anni non abbiamo idea di cosa sia una guerra.
Buon Natale. Buon anno. Speriamo.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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