La matematica non sarà mai il mio mestiere era scritto nel mio DNA ancor prima che Venditti la cantasse in “notte prima degli esami”. Sognatore, distratto, poco adatto per le rette e le parallele preferivo curve e lunghe discussioni fin dalle elementari. Imparai da bravo bambino le tabelline a memoria ma chiedevo un po’ a tutti quelli che mi capitavano davanti: “E adesso? Che me ne faccio?” La maestra rispondeva severa e decisa: “ti serviranno per saper far di conto”, mia madre – sempre severa e decisa – ribatteva: “meglio sapere una cosa in più che una in meno”. Gli amici non mi rispondevano e tutti gli altri adulti e conoscenti mi osservavano dall’alto al basso con un’unica espressione: “basta, le devi studiare”. Così alle medie mi son sorbito i monomi e i binomi e alle superiori le equazioni di secondo grado con delle formule improponibili per chi voleva cambiare il mondo con le parole. Le espressioni algebriche poi, erano il mio cruccio: mai una volta che azzeccassi il risultato suggerito dal libro e il famoso detto in voga a quei tempi “per me questa è algebra” era davvero coniato per me. Poi, come sempre, il destino qualche rametto storto nella strada della vita riesce a metterlo e così inciampai in Berenice, per tutti Nice. Madre francese, padre algherese, lentiggini e bel sorriso e bravissima in matematica. Cominciai a frequentarla e spiegai a grandi linee la mia avversità per la materia: “per me il problema è l’italiano” mi disse con con una splendida erre moscia. Il primo quadrimestre camminò spedito per entrambi: lei risolveva gli enigmi algebrici io, invece, le scrivevo i temi. Pareva andasse tutto bene quando ai primi di marzo affondammo miseramente. Il mio compito di matematica prese un bel due, nonostante fosse tutto giusto e quello suo di italiano rimediò un bel tre, seppure non ci fosse neppure un errore. I due professori ci chiamarono e ad entrambi dissero: “Non era possibile che il peggiore in matematica fosse diventato bravissimo in un attimo e, viceversa, quella che stentava negli scritti di italiano pareva una piccola scrittrice. Abbiamo fatto due più due e abbiamo capito. Due più due, maledizione: compresi in un attimo che la matematica per quanto non sarebbe mai diventato il mio mestiere serviva per comprendere il mondo. La professoressa di italiano, prima di congedarci mi disse: “ma almeno un bacio ve lo siete dati?” Il professore di matematica sorrise e mi osservò divertito. Non ci volevano molte equazioni per capire che ero diventato rosso fuoco. Ritornammo alle nostre mediocrità: io collezionando lievi insufficienze in matematica e Nice rasentando il cinque in italiano. Fummo entrambi promossi, ma che fatica. Pensate come posso comprendere le equazioni di campo, pubblicate da Albert Enstein il 2 dicembre del 1927. E non so neppure se si sono intersecate con la mia vita. Ne dubito. A proposito: prendevo un bacio per ogni tema e Nice due baci per espressione algebrica. Ero più onesto. Qualcuno, negli anni mi fece notare che, forse, ero più cretino. Non ho mai saputo fare i conti perché la matematica non è il mio mestiere.
Giampaolo Cassitta
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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