C’è un passaggio nella canzone “un altro bicchiere” di Daniele Silvestri che, da solo, costruisce un mondo: “La vita è in quel piatto di cose salate che bruciano l’anima e mettono sete”. Le storie maledette camminano sempre tra un bicchiere di qualcosa di forte e una sigaretta. C’è stato in un periodo ormai lontano, che coincide con l’inizio degli anni settanta, il gusto dell’esagerazione a tutti i costi, convinti che bere e fumare fosse, come si direbbe oggi molto “cool”, ovvero adatto ai tempi. Si beveva per noia, per l’amore perduto, per l’amore da dimenticare, perché quell’amore non rispondeva alle tue chiamate, perché non avevi più la forza di poter rispondere, perché facevi l’operaio, perché avresti voluto fare l’operaio, perché la scuola era uno schifo, la famiglia era uno schifo, la società, come sempre, era uno schifo. Ci si riempiva gli occhi e le mani di malto. Si andava all’assalto di un altro locale, di un’altra avventura e di un altro bicchiere. Era lo stereotipo dell’esistenzialismo ridondante, del “maudit”, di quello che non doveva chiedere mai. Si cercava il superalcolico in cui sciogliere, come ricorda Silvestri nella canzone, un altro frammento di vita e poi bere. Segmenti di generazioni perdute dietro falsi miti e false verità. Ad un certo punto si divise anche politicamente il bicchiere: il whisky era di destra, il vino di sinistra. Le Marlboro di destra, le Ms di sinistra, le nazionali senza filtro per gente cazzuta e le Stop per gli sfigati. Si giravano i locali tra una birra (decisamente operaia, soprattutto per il prezzo) e un paio di sigarette. Si rientrava tutte le notti ogni volta più sfatti e molto simili. Era l’unico momento in cui destra e sinistra andavano d’accordo e dividevano tutto. Per loro il futuro era un pensiero distante e quando si trattava di costruirlo, quel futuro, si prendevano un altro bicchiere e bevevano. Mi son reso conto che in tempi moderni tutto si è terribilmente modificato. Non si fanno più molte cose che noi giovani amavamo ai nostri tempi. Però a guardarlo bene questo mondo giovanile di oggi continua a camminare su alcuni stereotipi mai passati di moda: l’apericena, la discoteca, il dopodisco. Sono solo cambiati i termini e non ci sono più le ideologie. Si continua comunque a bere: per noia, per l’amore perduto, per l’amore da dimenticare, perché quell’amore non risponde alle tue chiamate, perché non hai più la forza di poter rispondere, perché lavori da schifo in un call-center, perché vorresti lavorare da schifo in un call-center, perché la scuola è uno schifo, la famiglia è uno schifo, la società, come sempre, è uno schifo. Questa bellissima canzone di Daniele Silvestri, tratta da un album altrettanto bello, Acrobati, mi porta a queste strani considerazioni. Le faccio davanti ad un bicchiere di Carignano. Buon ascolto.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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