“Uguali, diversi, normali” è il titolo di un libro che raccoglie le testimonianze di tanti giovani rom che hanno partecipato ad un progetto di ricerca/intervento condotto da docenti e ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma.
Alcuni di questi giovani, insieme all’antropologa Martina Giuffrè, che ha curato la pubblicazione del libro, e col supporto dell’ASCE (Associazione Sarda Contro l’Emarginazione), stanno girando per le scuole d’Italia, partecipando ad assemblee nelle librerie e negli istituti superiori per divulgare la cultura rom, per sensibilizzare, soprattutto i giovani, al superamento dell’emarginazione.
Sono giovani attivisti di varie associazioni rom di Italia, Spagna e Romania.
Stanno testimoniando le loro esperienze.
Naturalmente lo scopo del progetto è la conoscenza di quel popolo, tesa a favorire l’accoglienza e l’integrazione dell’etnia rom nei diversi Paesi europei.
Ho conosciuto due di questi ragazzi, Marinela Costantin e Fiore Manzo.
La prima nata in Romania ma trasferitasi da piccolissima a Bologna; il secondo di Cosenza, dove i suoi antenati si trasferirono tra il 1300 e il 1400, dunque Italiano da generazioni.
Marinela è una ragazza graziosa, una brunetta dal viso tondo, dalle guance paffute e dal sorriso negli occhi. Una di quelle ragazze solari che trasmettono simpatia, gioia di vivere e voglia di comunicare sensazioni, sentimenti e testimonianze. Tante testimonianze, messe insieme nella sua giovane vita dal momento in cui, affrontati i suoi problemi, li ha presi di petto, li ha sviscerati, li ha analizzati e quasi presi a cazzotti: ora è fiera della sua esistenza, delle sue origini, del suo passato, del suo presente e desiderosa di realizzare in futuro tutti i suoi sogni, per sé, per il suo giovane sposo, per il suo bambino e per quello che porta in grembo.
Sì, perché Marinela, a un certo punto della sua fanciullezza aveva deciso di rifiutare la sua condizione, non sopportava più di essere emarginata e isolata, non tollerava l’insegnante di sostegno perché sapeva di essere normodotata, non accettava di vivere in quell’abitazione malsana, brutta, uguale a tante altre, quella casa di legno, dove non c’era acqua corrente, dove in inverno faceva un freddo cane e in estate si soffocava per il caldo.
Neppure il trasferimento in una struttura in muratura come la villa Salus (una clinica dismessa di Bologna) l’aveva aiutata a scrollarsi di dosso quella che sentiva come una macchia indelebile, quella diversità che le impediva di accettarsi, che la faceva soffrire peggio di una malattia: rifiutava tutti, ma rifiutava soprattutto se stessa, si sentiva diversa perché la consideravano diversa.
Eppure è una ragazza normale, intelligente come le sue coetanee, a scuola va bene, le piace leggere e sognare, le piacerebbe vivere una vita normale, in una casa normale, con amiche e amici normali, insomma le piacerebbe essere normale, vivere come una persona normale e soprattutto considerata normale.
Crescendo sente come un peso insopportabile la sua appartenenza ad una comunità alla quale viene sostanzialmente impedito, in Italia, di vivere come gli altri italiani, perché lei si sente italiana, parla italiano, legge italiano, pensa italiano, sogna di realizzare i suoi sogni e di laurearsi, di insegnare, di crescere socialmente e di diventare…normale.
Ma vive con angoscia la sua condizione e una volta alle superiori decide di non dire a nessuno qual è il suo “problema”, quello che considera quasi una malattia, una brutta malattia, perché ormai per lei l’essere rom è peggio delle peggiori malattie, e nascondendo la sua etnia si accorge che viene accettata.
Persino al fidanzatino, un giovane studente, rappresentante degli studenti nella scuola che frequenta e anche lui rom, Marinela nasconde la sua origine, la sua appartenenza al mondo dei rom.
Poi finalmente la presa di coscienza, l’orgoglio, la consapevolezza e il coraggio di affrontare di fronte a tutti il suo essere zingara, che se inizialmente creava disappunto tra chi “non se n’era accorto”, ora lo ostenta con orgoglio e combatte con tutta se stessa, con la forza della ragione, contro i pregiudizi, contro l’emarginazione, contro ogni forma di razzismo.
E sta girando per le scuole, con i suoi ventitre anni, giovane tra i giovani, a testimoniare la sua esperienza e la sua voglia di un mondo migliore.
Fiore, come già detto, è un ragazzo di Cosenza, appartenente ad una famiglia che fino agli anni quaranta era dedita al nomadismo, un nomadismo dettato dalla professione dei suoi nonni, commercianti di cavalli quelli paterni, e artigiani che costruivano utensili come palette, mestoli e cesti per la frutta quelli materni.
Con la famiglia vive in un villaggio di casette in lamiera costruite dal comune negli anni cinquanta e sessanta in seguito ad un’alluvione.
Fiore sta poco al villaggio. Trascorre la maggior parte del tempo all’Università, a studiare. Il paradosso per Fiore è che molti rom non lo considerano uno di loro proprio perché trascorre gran parte del tempo con gli “italiani”, a studiare, mentre gli “italiani”, a loro volta, lo considerano rom e non italiano.
Ma lui si sente italiano, con forza, e quando gli chiedono: «Di dove sei»? «Di Cosenza risponde». «Ma sei rom, da dove provieni? Dalla Romania, dai Balcani»? «No sono di Cosenza, e sono italiano dal 1350», risponde con orgoglio.
Il suo sogno è laurearsi e insegnare all’Università.
Per ora studia Scienze dell’educazione, è attivista di un movimento per l’integrazione dei rom e di tutti gli immigrati e scrive poesie. Un suo libro, “Pezzi di cielo congiunto”, è stato pubblicato lo scorso anno, edito da Coessenza.
Nata quasi a metà del secolo scorso, ha dato un notevole impulso, giovanissima, all'incremento demografico, sfornando tre figli in due anni e mezzo. La maturità la raggiunge a trentasei anni (maturità scientifica, col massimo dei voti) e la laurea...dopo i sessanta e pure con la lode. Nonna duepuntozero di quattro nipotini che adora, ricambiata, coi quali non disdegna di giocare a...pallone, la sua grande passione, insieme al mare.
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