Sto leggendo in questi giorni l’inchiesta “La strage dimenticata-Fiumicino, 17 dicembre 1973”, firmata dal giornalista Gabriele Paradisi e dal giudice Rosario Priore, titolare dell’inchiesta al tempo dei fatti. Per chi non lo sapesse, in quella mattinata di 43 anni fa all’aeroporto romano si consumò uno degli attacchi terroristici più violenti avvenuti nel nostro Paese. Un commando di Settembre nero, organizzazione palestinese, lanciò una bomba dentro un aereo Pan Am fermo sulla pista e carico di passeggeri americani, prima di dirottarne un altro della Lufthansa facendolo vagare per i cieli del Medio Oriente e poi atterrare in Kuwait. Morirono 32 persone, quattro delle quali italiane. Dei terroristi, consegnati all’Olp, non si seppe più nulla e probabilmente la fecero franca: per questo e per tanti altri buoni motivi, tra cui i rapporti ambigui tra autorità italiane e guerriglia palestinese, si parla di strage dimenticata. Nel senso che a molti conviene non ricordarla. Perché vi parlo di questo libro? Per due elementi colti tra le pagine, del tutto distinti l’uno dall’altro, ma che mi portano a credere che il mondo in questi anni non sia in fondo tanto cambiato. L’inchiesta ripercorre, attraverso cronache dei giornali e comunicazioni riservate delle diplomazie coinvolte, la cronaca di quei giorni e dei mesi seguenti. Non mancano, naturalmente, gli atti dell’indagine promossa da Priore. E nel sempre più rapido evaporare della storia, un dato emerge: contrariamente a quel che siamo portati a credere, l’emergenza terrorismo non è affatto un’esclusiva dei nostri giorni ed esiste sempre un qualche ideale per armare le mani dei fondamentalisti. Il 1973, il 1974, tutti quegli anni erano un elenco interminabile di dirottamenti, attentati, agguati, rapimenti, assalti alle ambasciate del mondo compiuti dal terrorismo legato alla causa palestinese. Ettolitri di sangue che abbiamo rimosso o non abbiamo mai saputo, ma che tolgono al nostro presente il carattere dell’emergenza eccezionale.
C’è poi un altro fatto, certamente marginale ma comunque significativo. Ad un certo punto, nel divampare delle inchieste giornalistiche sui fatti di Fiumicino, da fonti arabe saltò fuori una possibile complicità di Gheddafi con il commando di Settembre nero. La notizia ispirò a Carlo Fruttero e Franco Lucentini un irriverente ritratto del colonnello libico, pubblicato sul quotidiano La Stampa. Gheddafi lo lesse, s’incazzò come una biscia e mandò un suo stretto collaboratore a parlare con Gianni Agnelli, chiedendo l’allontanamento dal giornale dei due scrittori responsabili dello sberleffo. Il direttore de La Stampa era Arrigo Levi, che si rifiutò persino di esaminare la richiesta, giudicandola irricevibile. A quel punto Gheddafi chiese la testa di Levi, di cui aveva per giunta appreso le origini ebraiche. E non si limitò a chiederla tanto per chiederla, ma avvertì Agnelli che se il direttore non fosse stato licenziato avrebbe interrotto tutti gli acquisti di auto e camion della Fiat – Gheddafi non aveva ancora quote della Fiat, ma la Libia aveva stipulato con la Fiat ricchi contratti per forniture di mezzi – e boicottato la casa torinese in tutto il mondo islamico. Ma l’editore preferì non cedere e Levi restò alla direzione (Agnelli raccontò la vicenda, dal suo punto di vista, in un’intervista a Prima Comunicazione del 1999). I giornalisti francesi inventarono per l’occasione uno slogan che avremmo poi sentito riecheggiare molti anni dopo: “Nous sommes tous des journalistes italiens”. Questa storia me ne ha fatto venire alla mente un’altra, avvenuta circa trent’anni dopo, che capitò a me e di cui certamente non troverete traccia nei memoriali della stampa. Credo di averne già fatto cenno, su Sardegnablogger. Insomma, nel 2001, da giovane cronista de L’Unione Sarda, scrissi un pezzo per l’inserto estivo in cui raccontavo le smargiassate dei figli di Gheddafi in Costa Smeralda. In particolare di Moutassam, giovanotto parecchio arrogante e dal bisticcio facile. Il pezzo finì sul sito Dagospia di Roberto D’Agostino, messo in rete solo pochi mesi prima ed ebbe evidentemente una certa risonanza. Il giorno dopo, accompagnato da Marta Marzotto, piombò nella redazione di Olbia un inviato del giornale, incaricato di scrivere un pezzo riparatore andando ad intervistare un altro rampollo del colonnello, il figlio maggiore Al Saadi, in vacanza su uno yacht a Porto Cervo. Qualcuno, dall’ambasciata libica, si era molto lamentato del mio pezzo, ma non seppi mai con precisione quali minacce o ritorsioni avesse ricevuto il giornale.
Ecco, leggendo la storia di quegli anni settanta da quell’angolo visuale, mi è sembrato di leggere esattamente le cronache di oggi. Terrorismo, dittatori influenti, stampa sotto minaccia. Il mondo è cambiato meno di quel che pensiamo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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