Quando l’arbitro ha fischiato per la terza volta, ieri sera, ho subito pensato a Tullio e a quanto la vita sappia essere cattiva. Tullio lo avevo conosciuto una ventina d’anni fa. Si era innamorato di una ragazza sarda, Maria, che lo aveva trattenuto in Sardegna: “Dovevo stacce quinnici giorni in vacanza, nun me ne so’ più annato”, mi spiegò quella volta che gli chiesi come fosse arrivato da queste parti. Lui e Maria avevano preso in gestione il distributore di benzina all’emiciclo Garibaldi, al centro del paese, io mi servivo lì e dunque ci vedevamo spesso. Col benzinaio ci si può stabilire un rapporto confidenziale quanto quello col barbiere: visite più brevi, ma più frequenti. Daje e daje si diventa amici. Tullio, alto e magro, con quel suo passo macchinoso da robot arrugginito, aveva una fede sopra tutte le altre: la magggica Roma. Non si può dire che la vivesse serenamente. Il box prefabbricato di plexiglass e alluminio del distributore lo aveva tutto tappezzato di sciarpe e poster coi colori giallorossi. Era la Roma dello scudetto, anno 2001. Mi ricordo un ritratto a grandezza naturale di Batistuta mentre mimava la raffica di mitra, il gesto che seguiva ritualmente ognuno dei suoi frequenti goal. E poi foto di Totti, Montella, Walter “the wall” Samuel e il pendolino Cafù. Per Tullio quell’attaccamento ai colori era forse un modo per sentirsi ancora parte di una comunità che fisicamente aveva lasciato, con quella scelta di vita e d’amore. Il giorno dopo lo scudetto del 2001, il 17 giugno, Tullio appese delle casse acustiche fuori dal distributore. Per settimane, chiunque passasse da quelle parti era assordato a cori da stadio e dalla voce di uno speaker che declamava, uno per uno, i calciatori di quella Roma scudettata. Quando provavo a chiedergli come si sentisse, s’impappinava e non sapeva cosa rispondermi, vinto dall’emozione. Ricordo che in quei giorni lo intervistai per l’Unione Sarda: valeva la pena dare conto di quell’esultanza anche nelle pagine di cronaca.
Tullio è morto due anni fa. Dello stesso male che gli aveva portato via qualche anno prima Maria, la donna che gli aveva fatto conoscere e vivere la Sardegna. Di loro due, su questa terra, è rimasto il nitido ricordo e una bellissima figlia.
Ho pensato subito a Tullio, quando l’arbitro ha fischiato per la terza volta, perché la vita avrebbe dovuto concedergli di assistere a questa gioia di tifoso, romano e romanista. Chi non vince mai, chi fatica la vita ogni santo giorno, può commuoversi anche per una vittoria in una partita di calcio. Perché si ha il diritto di credere che non tutto scorra sempre secondo un copione prestampato. Difficile da spiegare a chi disprezza il tifo, a chi lo vede come la volgare rappresentazione di un’Italia persa dietro passatempi senza importanza. Il mio amico Tullio, anche se non riusciva a spiegarlo bene a parole, sapeva che dietro una partita di calcio c’è tanta vita.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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