Alla fine Trump ha mantenuto le promesse elettorali: ha detto che avrebbe mandato a quel paese il mondo su quella questioncina del riscaldamento, e l’ha fatto. È notizia di ieri che gli USA si sfilano dagli accordi di Parigi. Riguardavano, lo sapete, il contenimento delle emissioni di anidride carbonica e metano nell’atmosfera, e l’impegno a non superare la soglia dei due gradi di aumento della temperatura media globale. Aumento rispetto ai livelli preindustriali.
L’intesa storica, chiusa a Parigi nel 2016, era frutto di dieci anni di accordi e trattative. Erano anni che ci si provava, ma USA e CINA avevano sempre fatto resistenza, perché ridurre le emissioni poteva significare ridurre alcune attività potenziandone altre (estrazione e consumo di combustibili fossili is bad, uso di energie rinnovabili is the new black). Obama era riuscito a portare gli USA al tavolo (grazie al piffero, li guidava lui) ma era riuscito anche a convincere la Cina. Sembrava fatta. La maggior parte dei paesi e in ogni caso i paesi responsabili della maggior parte delle emissioni, si era trovata d’accordo sui punti principali: contenere il riscaldamento, contenere le emissioni, aiutare i paesi più poveri ad adeguarsi e i paesi più colpiti dai cambiamenti a farvi fronte, aggiornarsi spesso sullo stato dell’arte ecc. L’idea di fondo è che siccome la temperatura sta aumentando, siccome nello stesso periodo (circa 200 anni) in cui la temperatura è salita sono aumentate anche le emissioni di CO2 in atmosfera, siccome la CO2 aumenta l’Effetto Serra, intrappolando in atmosfera il calore ricevuto dal Sole, siccome non vogliamo morire bolliti, dobbiamo ridurre le emissioni e contenere il riscaldamento.
Poi è arrivato Trump e ha promesso di pulirsi il sedere con quegli accordi, perché non era vero niente, non è scientificamente provato (lo dice anche Zichichi, d’altra parte) e l’economia non può fermarsi ecc.
E ieri, dopo essere tornato a casa da un viaggio in Europa, Riporto giallo ha detto che lui si sfila, e che gli accordi di Parigi non sono più affar suo.
La buona notizia è che Europei e Cinesi hanno detto che si va avanti comunque. La notizia un po’ così è che la Russia ha detto “senza Donald quell’accordo non sarà più lo stesso”.
Le notizie cattive sono invece troppe per elencarle qui.
Riflettiamo solo su una cosa: si è detto in questi giorni che la scienza non è democratica. A mio avviso, messa così è una fesseria. Però se la prendiamo per buona, legittimiamo poteri che scienza non sono a dire: bene, “perché allora dovremmo essere democratici noi?”. Il problema semmai è un altro: è chiedersi non tanto se la scienza debba essere democratica, ma quale debba essere il suo ruolo rispetto al contesto sociale e politico di cui la scienza è solo una parte. L’origine del problema sta nell’estrema complessità dell’”oggetto” che si sta studiando e su cui si vorrebbe intervenire. Succede nel caso dell’atmosfera e succede ogni volta che abbiamo di fronte a noi un essere vivente. Se ci limitiamo ad applicare formule basate su sequenze lineari di cause ed effetti, la stessa natura della cosa studiata (complessa e pertanto soggetta a processi di tipo ricorsivo e non lineare) lascerà scoperti enormi margini di errore. Il punto allora non è affinare le tecniche di analisi dei dati, ma mettersi un paio di occhiali diversi e rendersi conto che si sta tentando di ragionare e prendere decisioni su una cosa viva (un paziente lo è, un sistema biosfera+atmosfera, lo è). Se la scienza serve solo a mettere il timbro su cose assolutamente certe, allora ha ragione Trump: non c’è la prova provata che le emissioni di CO2 siano la causa diretta del riscaldamento del pianeta e dunque, scientificamente, siamo autorizzati a fregarcene. D’altra parte, la concomitanza tra aumento delle emissioni e aumento delle temperature è altissima e molti indizi inducono a pensare che le cose stiano così. A quel punto si tratta di mettersi attorno a un tavolo, parlarsi e arrivare a un accordo, come è successo a Parigi. L’alternativa è rivendicare primati e primogeniture, rivendicare per sé l’assoluto diritto a parlare e attribuire agli altri il dovere di tacere e ascoltare. Autorizzando chiunque a fare altrettanto. E a me non resta che il bunker.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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