Dalle opinioni alle sentenze nella “Giustizia Social”
Abbiamo iniziato con i commenti e le recensioni, ci siamo sentiti in dovere di esprimere i nostri giudizi su video, articoli, dire la nostra sopra le opinioni altrui rispondendo a ben articolate critiche con lapidari “è una cagata pazzesca”. Abbiamo poi scoperto di avere il potere di “confermare o ribaltare la classifica” di una lista dove ristoratori e operatori del turismo si sono ritrovati a dipendere dall’umore del popolo dei recensori.
Ricordo i figuri di paese che tenevano banco, per lo più nei bar o nelle panchine della piazza, sapevano tutto lo scibile e avevano opinioni su tutto: politica, geopolitica, fantapolitica e poi sapevano tutto su come si cura il cancro, le pubblicazioni per essere validate dovevano passare sotto la loro supervisione. Il tono saccente arricchito da quell’etilismo che disinibiva il linguaggio non lasciava dubbi e io mi chiedevo come facessero. Io mai avrei messo in dubbio il loro sapere e più che altro non avevo le armi per farlo.
Poi quell’odore alcolico, mai dimenticato, l’ho ritrovato tra i pixel dei commentatori seriali. Però nel frattempo una professoressa molto rigorosa mi aveva lavorato ai fianchi, facendomi esercitare sugli eventi e sulla percezione della realtà, non sempre è ciò che sembra. Con un lavoro in cui ho versato anche lacrime, mi ha insegnato a ricostruire e riportare prima i fatti e poi, solo poi, le opinioni, mai il contrario. I “secondo me” erano banditi dalle conversazioni e finché non ci fossero stati sufficienti elementi era nostro dovere sospendere il giudizio. Da lì ho potuto intravedere la maschera dei figuri reali e digitali che esprimevano un’opinione su tutto. Sulle poche informazioni sono capaci di riempire lacune con le loro invenzioni, ricostruiscono una realtà fatta a proprio uso e consumo dettata da teorie ingenue, generalizzazioni e pregiudizi.
Laureati all’università della strada specializzati in immunologia, oncologia al bicarbonato, ingegneria coi tutorial. Prendono campioni statistici dal pianerottolo del condominio e leggono numeri senza contestualizzarli.
E non serve prenderne le distanze, prima o poi ci caschiamo tutti. Tutti. Siam critici gastronomici anche se non distinguiamo la carne dal pesce, sconsiglieri delle vacanze e dei locali. Manciate di righe per indicare cosa è da NON frequentare colpendo a morte quel ristoratore che non aveva la birra ben ghiacciata. La recensione è una vendetta. I post sono sentenze.
Sentenze, sì. Perché poi da semplici opinionisti con velleità di influencer, siamo passati a far processi fai-da-te senza “aspettare i tempi della giustizia”.
Il mouse si trasforma in martelletto e la condanna è gettare il reo in pasto al social, i livorosi commentatori faranno il resto. Il popolo assatanato trasformerà la colpa in un bruscolino rispetto alla pena. Ovviamente anche quando la colpa è da accertare.
E allora giù a insultare Andrea “Lucky” Lucchetta reo di aver tirato fuori dall’acqua stelle marine e nacchere “il tempo di uno scatto”, a non aver pietà di un Fenati che dopo il suo gesto inconcepibile è stato continuamente insultato anche quando ha chiesto scusa e dopo aver dichiarato di abbandonare le competizioni sportive (sì qualcuno lo ha difeso in realtà, ma poi ha anche concluso con un “Eallorailpiddì?” mandando in vacca tutta la benevolenza) e il recentissimo episodio di Douglas Costa, colpevole, secondo i commentatori rancorosi, non tanto di un gesto deplorevole in sé ma di aver “sputato in faccia a un ventenne italiano” (proprio così) e partono insulti razzisti perdendo il focus della situazione. E ancora una mamma che si vanta di aver falsificato i documenti di un figlio, a quanto dice lei, non vaccinato, e via a condividere il suo post con tanto di nome e cognome, del resto se davvero avesse falsificato (lo ha fatto davvero o millantava?), sarebbe gravissimo, ma non possiamo aspettarci che sia Zuckerberg a infliggerle la pena e magari, come tanti hanno espresso, a toglierle la potestà genitoriale.
E c’è anche chi contesta le sentenze, quelle vere fatte da giudici veri nei tribunali veri. Cioè avete presente le leggi con tutti quegli articoli e commi? Ti ci vogliono anni di studio per leggerle, impararle, interpretarle e applicarle. Il metodo scientifico si rigira nella tomba, in cui lo abbiamo schiaffato, ogni volta che condanniamo o scagioniamo qualcuno perché lombrosianamente non è compatibile con la sentenza, quella vera.
Visto che non tutti siamo soliti frequentare le aule giudiziarie, almeno ricordiamoci di quei film dove l’indiziato è sempre e solo uno per 119 minuti ma alla fine viene dimostrato (DIMOSTRATO! Contro ogni apparenza) che il vero colpevole non è il maggiordomo.
Sparo pixel alla rinfusa, del resto sono nata sotto un palindromo (17-1-71), non potevo che essere tutto e il contrario di tutto. Su una cosa però non mi contraddico «Quando mangio, bevo acqua. Quando bevo, bevo vino» (cit. un alpino)
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