E’ semplicemente folle pensare di adoperare un mare chiuso con la più alta concentrazione di attività economiche, di turismo, di popolazione, di storia e di cultura per scopi industriali, che non siano almeno limitati e garantiti.
Tuttavia, osservo questo scontro tra massimi sistemi, a proposito del referendum sulle trivelle, con una certa perplessità. Infatti questo referendum, oltre le questioni di principio, serve opportunamente a regolare un vuoto legislativo, una sorta di sopravvivenza nello scontro tra Stato e Regioni iniziato con la modifica della Costituzione.
In sintesi, il referendum riguarda una ventina di piattaforme dentro la fascia di 12 miglia nautiche, per la maggior parte, è corretto dire, metanifere, al fine di impedire che le concessioni che lo Stato ha rilasciato loro vengano prorogate alla scadenza.
Una cosa pleonastica: dato che in quella fascia non è più possibile aggiungere altre piattaforme di altre compagnie, non si capisce per quale motivo a quelle esistenti debba essere concesso il privilegio di continuare, anche dopo la scadenza di un diritto ovviamente fatto salvo, a prelevare combustibile.
Sarebbe bastata una leggina per dirimere una cosa così ovvia e semplice. Ma che dico una leggina, forse sarebbe bastata una delibera ministeriale, o una circolare esemplificativa.
Quindi ora siamo “costretti” ad andare a votare SI ad un referendum, per rimediare a un vuoto legislativo che per motivi inspiegabili non si è voluto chiarire.
E tuttavia questo Referendum, nella sua scontata banalità, lo temo per due motivi.
I combustibili fossili, si sa, producono la C02 responsabile dei cambiamenti climatici, in agenda da diverso tempo nelle discussioni tra grandi potenze per gli effetti devastanti sull’umanità.
Per cui da alcuni anni si cerca di limitare il consumo di questi combustibili, petrolio, carbone e metano, a vantaggio delle cosiddette energie rinnovabili. Gli enti sovranazionali come la Comunità Europea offrono degli incentivi, sotto le più svariate forme, accompagnati da obblighi per le aziende produttrici di energia di riservare una quota della loro produzione da fonti rinnovabili.
Tutto questo però ha finito per provocare una pericolosa speculazione, a discapito delle aree geografiche più deboli, che si sono viste “utilizzate” come piattaforme territoriali per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Sicché il rimedio, alla fine della fiera, rischia di essere peggiore del male. Un esempio clamoroso sembra quello delle centrali a biomasse, per la quale si utilizzano produzioni di essenze vegetali come la canna, il cardo, l’olio di palma, che stanno provocando dei dissesti ecologici significativi. Si pensi alle foreste indonesiane, le seconde per ampiezza al mondo, dove, peraltro, vivono gli ultimi esemplari di orango, distrutte ed incendiate per la produzione dell’olio di palma, sia a fini alimentari ma anche, appunto, per le biomasse.
In Sardegna, in particolare, si assiste ad uno strano affollamento, da parte di multinazionali, di progetti già in essere od in itinere, per impianti di varia natura, eolico, biomasse, fotovoltaico, termico solare, geotermico, eccetera, al punto da produrre fenomeni speculativi di accaparramento delle terre, il cosiddetto “land grabbing”, con sensibili ripercussioni nei riguardi del settore maggiormente in crescita nella regione, l’agricoltura. In pratica, questi progetti, invece di produrre vero sviluppo, indotto e posti di lavoro, si riducono a limitati proventi per i proprietari terrieri che affittano (si parla di 2000 euro all’anno per una pala eolica di 30 metri di altezza) o addirittura vendono.
Torniamo al referendum, ora. Perché lo temo? Perché se è vero che ha attirato l’attenzione sulle questioni dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile, è anche vero che ha alimentato la retorica delle fonti rinnovabili, che a mio parere, in questo momento, rischia di diventare una speculazione peggiore di quella.
Le Regioni, infatti, di fronte a questo maremoto di progetti, si è trovata a regolamentarli con limitati strumenti giuridici. Troppo spesso, infatti, i giudici, anch’essi, forse, ingannati dal verbo “rinnovabile è bello”, hanno dato torto agli enti pubblici che cercavano di limitare questa invasione.
E’ il caso recente dell’eolico in Sardegna: in breve la regione ha previsto che il cosiddetto minieolico (si fa per dire) potesse essere dislocato solo in determinate aree (tipo cave dismesse, zone industriali), ma i giudici del Consiglio di Stato hanno dato parzialmente ragione ai ricorrenti obbligando la Regione a modificare l’assunto, non più regolamentare dove mettere gli impianti ma dove NON metterli. La Regione è corsa ai ripari elencando tutte le zone possibili immaginabili di divieto (parchi, aree Sic, coste, boschi ecc.), non potendo, tuttavia, impedire la dislocazione degli impianti, ad esempio, nelle zone agricole, con pregiudizio delle attività produttive.
Ecco perché temo la retorica del “rinnovabile è bello”, perché, francamente, tra una finta serra di fotovoltaico, che non produce neppure un filo d’erba e occupa prezioso spazio agricolo ed una trivella al largo che produce metano, non saprei cosa scegliere, onestamente.
Dato che scegliere dobbiamo, visto che in Italia, di eremiti che vivono come al tempo della pietra, non è che ne veda tanti.
Ma infatti la seconda retorica che temo, a proposito di questo referendum, è quella che definisco l’ambientalismo da crocetta sulla scheda.
Una bella crocetta sulla scheda, come ai tempi del nucleare, e ci siamo ripuliti la coscienza ambientalista, senza limitare in nulla i consumi, che sono il vero problema.
Perché noi possiamo anche decidere di mettere pale eoliche al posto di una trivella di metano ma, per il principio della termodinamica, tutto si trasforma e nulla si distrugge, non è che la situazione cambi di molto. O per dirla in matematica, invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia.
Quando abbiamo abolito il nucleare in Italia ci siamo posti all’avanguardia di un pensiero ecologista che, in Europa, avrebbe meritato più fortuna.
Sarebbe stato bello, infatti, che gli altri paesi europei ci avessero seguito in quella scelta coraggiosa. Niente, l’Italia rimase sola. Figurarsi, vai avanti Italia, che a noi ci viene da ridere. Con il risultato che ora importiamo energia di derivazione nucleare dalla Francia.
Anche stavolta, sul piano ecologico, invertendo l’ordine dei fattori il risultato non è cambiato. L’Italia, paese fortemente energivoro in quanto settima potenza industrializzata del mondo, da qualche parte l’energia deve pur andare a prenderla.
Ma al netto delle immagini raccapriccianti di animaletti incatramati, nessun appello ad uno stile di vita più ecologico, meno consumistico, meno inquinante, è giunto alle mie orecchie. Tutta la problematica ambientale, che è culturale, non solo politica, sembra risolversi vincendo un referendum dagli effetti, in realtà, piuttosto limitati.
Alla fine, ho come l’impressione che vi sia la tendenza a proiettare responsabilità che sono anche sociali sempre su soggetti altri, liberandoci da ogni pensiero.
Questo ritengo non sia un buon viatico per questo referendum. Viviamo in un mondo dove le multinazionali sono degli squali assetati di sangue, ma dimentichiamo che siamo noi, con il nostro stile di vita, ad alimentarle.
Per cui mi piacerebbe che questo referendum possa essere l’occasione per una riflessione generale sull’ecologia e sul nostro sprecone stile di vita. Riciclare gli oggetti, mangiare sano, andare a piedi o in bicicletta, non abusare del condizionatore, limitare l’uso della corrente elettrica a casa, non sarebbe male come occasione per dare un senso ad un Referendum che, altrimenti, si risolverebbe solo in una manifestazione di buoni principi.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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