Trevor Berbick, di anni 52, è stato trovato ucciso il 28 ottobre del 2006 nel giardino della sua casa di Port Antonio, sulla costa nord orientale della Giamaica. Dietro la testa aveva delle ferite profonde da arma da taglio: letali anche per un marcantonio come lui, che in vita ne aveva date tante e quasi altrettante ne aveva prese. Trevor Berbick è stato per otto mesi della sua vita il campione del mondo dei pesi massimi di pugilato, il primo giamaicano ad indossare la cintura iridata in una categoria della nobile arte. Più dei suoi successi sportivi, Berbick è la dimostrazione di come la vita possa darti e toglierti tutto, issarti su un piedistallo e un momento dopo scaraventarti in mezzo alla polvere dell’anonimato, chiuso nel cassetto buio del dimenticatoio. Succede spesso, si dirà, in un mondo di teste calde qual è sempre stato il pugilato. Eppure Berbick – prima di finire i suoi giorni dissanguato per una banale lite di vicinato, ucciso da un nipote – aveva davvero toccato la storia con i guantoni, incrociando i suoi con quelli di due leggende del ring: Mohamed Alì e Mike Tyson. Incontrati in momenti decisivi delle rispettive carriere.
Il peso massimo Berbick è un onesto mestierante del ring, senza talento ma con una castagna mica da ridere. Partecipa nel 1976 alle Olimpiadi di Montreal senza andare oltre il nono posto, quindi si trasferisce in Canada perché con la boxe ha intenzione di fare sul serio. Poi, nel 1981, gli capita il classico colpo di fortuna. Affronta sul quadrato di Nassau, alle Bahamas, quel che resta di Mohamed Alì. Mi sono andato a cercare il filmato su Youtube, per capirne di più. Il campionissimo ha 39 anni, tanti pugni incassati nel corso di una carriera favolosa e massacrante, lo sguardo spento di chi si è pentito di combattere prima ancora di infilarsi tra le corde. Cammina svogliato tra gli spogliatoi ed il ring, in mezzo alle tribù dei due angoli: accappatoi di seta lucida, cravatte dai nodi sproporzionati, secondi che si agitano e urlano incoraggiamenti animaleschi ai rispettivi atleti, mentre sul tappeto un singer nero canta l’inno americano. L’incontro è una pena. Il ballerino che fu Alì ha perso ogni grazia, spara colpi a vuoto e da un certo round in poi cerca solo di arrivare alla fine senza troppi danni. Berbick lo grazia e vince comodamente, con verdetto unanime. È l’11 dicembre di quel 1981 e non ci sono titoli in palio. Eppure il gigante giamaicano entra nella storia una prima volta, forse senza saperlo: è stato l’ultimo avversario di Alì, la più grande leggenda della storia del pugilato, che quella stessa sera si sfila i guantoni per sempre.
Gli anni passano, Berbick continua a darle e a prenderle. Più a darle, se si considera che vince più della metà dei suoi incontri prima del limite. La ruota della fortuna lo premia ancora, nel 1986. Il 22 marzo ha la possibilità di affrontare per il titolo dei pesi massimi Wbc Pinklon Thomas, uno che se lo cercate su Wikipedia neppure lo trovate. Trevor ha i pantaloncini bianchi con lo spacco laterale, quelli del campione sono invece di un improponibile rosa acceso. Thomas sovrasta di qualche centimetro l’avversario, ma prima del gong il suo sguardo è assente. Un sosia di Lionel Ritchie con lo sguardo da appassionato di gin tonic e, per giunta, con quei boxer da coatto in vita. Vanno avanti per dodici riprese, ma più che un mondiale al Caesar’s Palace di Las Vegas sembra la scazzottata al pub di un sabato sera di provincia. Berbick vince ai punti e si ritrova in pugno la cintura di campione del mondo, primo giamaicano della storia a riuscire nell’impresa. Ora vive negli Stati Uniti, sta nella scuderia di Don King e la sua carriera ha toccato la vetta, forse una vetta persino troppo alta per uno come lui. Dal 22 marzo al 22 novembre passano otto mesi esatti e sul mondo del pugilato si è abbattuto un tornado. Si chiama Mike Tyson e la sua fama arriva in Italia, raccontata in ogni dettaglio agli appassionati di casa nostra da Rino Tommasi. L’incontro si svolge ancora una volta a La Vegas e io me lo ricordo bene. Berbick ha trentadue anni, Tyson venti e ventisette incontri disputati. Tutti vinti, venticinque prima del limite. Berbick è un colosso, ma il volto affilato di Tyson assomiglia a quello di una iena che abbia annusato l’odore dolciastro del sangue. Al centro del ring, quando l’arbitro Dan Mills fa le raccomandazioni di rito, Tyson fissa l’avversario dritto negli occhi, Berbick guarda altrove. Il campione lega, cerca di accorciare ogni volta che può, capisce subito che contro la potenza devastante di Tyson non potrà nulla. Barcolla già alla prima ripresa, tramortito dai colpi inesorabili di quel ragazzino con la dinamite nelle braccia. Al secondo round, Berbick finisce al tappeto una prima volta. Si rialza, protende le braccia verso il cielo per dimostrare a Dan Mills di essere in grado di proseguire. Ma la sua luce si è spenta. Tyson ha già capito tutto, vuole concludere ma non scalpita, amministra con freddezza ogni colpo. L’ultimo colpo è un sinistro. Il bersaglio resta immobile per una frazione di secondo, poi crolla a terra coma una torre che imploda dall’interno. La sequenza successiva è un ricordo incancellabile, violentissimo. Berbick prova a tirarsi su ma le ginocchia cedono e lui casca di nuovo, ondeggiando da un lato all’altro del quadrato, in un balletto umiliante cui assistono in diretta milioni di persone. Sembra un paralitico che voglia alzarsi dalla sedia a rotelle, invece è il campione del mondo dei pesi massimi che sta concludendo la sua carriera. Tyson è campione e per il pugilato inizia una nuova stagione. Berbick rispetta la parabola discendente che tocca a tutti i boxeur al tramonto. Continuerà a battersi su ring ogni volta più sconosciuti, davanti a spettatori sempre meno numerosi, accettando anche esibizioni degradanti contro i fenomeni da baraccone del wrestling. Del resto deve mantenere sei figli, tre del primo matrimonio ed altri tre dalla seconda moglie. Nel 2000, a 46 anni, vince l’ultimo incontro della sua vita e diventa campione canadese dei pesi massimi. Ma dal match esce malconcio e i successivi accertamenti evidenziano un ematoma cranico: la licenza gli viene ritirata e diventa ufficialmente un ex pugile, capace di 49 vittorie su 61 incontri disputati. Non è uno stinco di santo, Trevor. Nel 1991 finisce dentro per violenza sessuale e resta in un carcere della Florida per 15 mesi, finita la detenzione gli Stati Uniti lo espellono e lui se ne torna in Giamaica, sul mare di Port Antonio, da dove ogni giorno tonnellate di banane e noci di cocco partono sui mercantili per finire sui mercati del resto del mondo. È difficile pensare che ci possa essere spazio per la morte, a Port Antonio. Spiagge bianche, vegetazione rigogliosa e mari che non voglio descrivere, se no scadrei nel solito elenco di aggettivi: trasparenti, cristallini, smeraldi. Dovrebbero essere tutti felici, a Port Antonio. E invece Trevor Berbick, campione del mondo di pugilato per otto mesi, ultimo avversario di Mohamed Alì e primo vero avversario di Mike Tyson, finisce i suoi giorni dissanguato nel giardino della sua casa, colpito dai fendenti del nipote Harold. Avevano litigato per questioni di vicinato, erano arrivati alle mani, alla fine Harold aveva estratto il coltello. In fondo, nella vita di Trevor Berbick il ring è stato il luogo meno pericoloso.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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