Ci sono quattro semi di avogado nella doccia in casa di mia madre. Sono infilzati con tre stecchini, immersi per due terzi nell’acqua dentro un bicchiere e uno di essi l’ho chiamato Santiago. Mia madre che ha il pollice verde deve essersi fatta un’idea del perché io le abbia affidato queste quattro gemme preziose da far germogliare e poi me ne sia ripartita per il mio porto continentale. Tuttavia le devo ancora una spiegazione. Nel frattempo ho piantato anche un piccolo seme nell’urna elettorale, ma visti i risultati di domenica scorsa mi auguro che i quattro avogado, per ora alberi invisibili, possano avere maggior fortuna.
Del resto cos’é un seme se non l’emblema della speranza? Cosa se non un viaggio cominciato chissa dove e continuato altrove. Un seme puo aver viaggiato col vento, sul mare, nel liquido amniotico, per posta o fra le righe di un verbo. I progenitori di questi quattro semi per esempio sono stati anche padre e madre di un poeta ed il poeta ha disseminato gli orti, i campi, la riviera, le città di invisibili storie e di alberi sopra cui arrampicarsi e da cui non scendere mai.
Il giorno prima di partire per la mia breve licenza sarda, Sanremo si é lasciata coltivare dalla pioggia. Le strade sono meno popolate del solito, in fondo alla curva il cartello vendesi sopra le sbarre del grande cancello di villa Meridiana mi riporta beffardamente ai tempi tristi di questo che fu un luogo incantato e di notevole sperimentazione. Sono giorni che dalle banchine di Portosole lascio la barca, dopo le cinque, e vengo qui ad aspettare che si ripeta la magia di cinque anni fa. Apriti Sesamo ripeto, ma Sesamo resta chiusa e solitaria, afflitta da pesanti nubi grigie, ignorata dal mondo dei vivi. A breve partirò e devo trovare il modo di entrare. Resta la via del citofono e so gia che non mi piacerà. Lungo l’elenco di cognomi ignoti una voce risponde dall’ultimo dei campanelli.
Intendiamoci, se Evelina Mameli, donna energica e risoluta, fosse stata ancora in vita e fosse venuta lei ad affacciarsi a quel balcone lassù, non avrei ottenuto probabilmente maggior concessione di questa.
Nemmeno se dalla strada le avessi gridato “Professoressa, c’e’ Santiago?” usando il nome di battaglia che suo figlio usava per fare il partigiano. Nemmeno se le avessi gridato “Siamo quasi compaesane sa?”.
La donna che intravedo tra le fronde della Villa sta scrutandomi fra sospetto e fastidio. In quanti saranno venuti a fare la stessa richiesta e a seccarla con questa faccenda?
E’ il 1925 quando al professor Mario Calvino appena tornato a Sanremo da Cuba assieme alla moglie Eva e al figliolo di un anno Italo, viene proposto di dirigere la Stazione Sperimentale di Floricoltura. Villa Meridiana è la loro casa ma diventa anche un centro di ricerca e rivoluzione entro le cui mura la natura è osservata protetta studiata innestata sperimentata con l’estro ed il rigore di due appassionati scienziati. Il loro contributo è un contributo fondamentale all’agricoltura, all’economia, alla cooperazione, alla cultura.
“Guardi – mi grida la donna affacciata sul balcone e ancora in vestaglia – ha giusto un minuto perche fra poco devo andar via e se nessuno le apre dopo non c’e’ modo di uscire”. Vorrei poter trovare un’accordo con questa atroce inquilina e farle capire che l’idea di restare chiusa dentro non mi disturba affatto. Ho una missione specifica da compiere e sarebbe meglio non essere disturbati.
È il 2014 e sono per la prima volta dentro questo giardino. Ho trovato l’indirizzo grazie alle pagine di una blogger sanremese, ma non ho la certezza tecnica di trovarmi nel posto giusto. Entrare è stato facile. Il cancello si è aperto, un’auto è uscita ed io posso sgattaiolare all’interno e guardarmi d’intorno senza fretta. Ci sono ficus, chicas, cactus, palme, forse allori, limoni,nespoli, nuvole di fiori azzurri lungo la linea di un muro che fra tutti gli altri intonacati di rosa sembra rimasto vecchio ma non trovo il segno inequivocabile dell’edotta selezione di due fra i botanici più rinomati del primo novecento italiano. Cosa può davvero comunicarmi ciò che fu questa villa? Quale segno può raccontare dell’antica casa? Del fermento di un tempo, della professoressa Evelina seduta al suo microscopio mentre Italo e Floriano fanno i compiti o sono costretti a ripetere i nomi in latino di certe piante. Della nonna Maddalena che fila la lana e nel farlo sembra circondata da Sassari Vecchia anziche da Sanremo. Della giovane cameriera appena assunta cui il giardiniere ha regalato, ma tu guarda che sfrontato, una biscia. Del professor Mario che dà vita a ibridi floreali assistito dal giovane Libereso, l’unico che gli dia soddisfazione mentre i figli lo rifuggono. Incredibile: sono a Villa Meridiana ma di quel nitore scientifico, di quella fervente stazione sperimentale e tanto meno dello scrittore alcuna menzione è restituita. Al riparo di un albero dove se anche qualcuno entrasse potrei restare nascosta, miro il vuoto tra le fronde e non so come dirimere il mio disappunto. Nel verde delle foglie il mio sguardo distratto e deluso ricompone d’un tratto alcune forme più precise, verdi e a pera che penzolano a decine sopra la mia testa. E capisco: sono avogado. E quanti! Certo, gli avogado non può che averli piantati lui, Mario Calvino in persona. E chi se no? Rianimata da un improvviso entusiasmo trovo una pertica stesa al suolo e comincio a battere sui rami perché i frutti cadano a terra. In un attimo sono circondata da cadaveri verdi di avogado, maturi e pesanti come cosce di tacchino. Il mio bottino! Il mio bottino finisce tutto arrotolato dentro la maglia. E adesso con nuovo vigore riprendo il mio giro per il giardino alla ricerca di altri segni. Trovo che il portone che dà accesso all’edificio è semiaperto. L’interno è spoglio e simile agli interni di mille altri condomini, il pavimento di mattonelle chiare, un paio di piante dentro vasi di finta terracotta, una porta d’ascensore verde. Ho i miei avogado, ma tutto sommato non ancora la certezza che i Calvino abbiano vissuto qua. Poi ecco, su una parete, accanto a tre stampe che raffigurano delle barche a vela, c’è il ritaglio di un articolo di giornale: mi avvicino con apprensione sperando di aver trovato qualcosa di significativo ed ecco, l’intestazione del foglio recita “Testimoni del tempo” e più basso un titolo “La nostra casa alla Punta di Francia”. Dalle prime righe che leggo avidamente è chiaro: è un estratto de La strada di San Giovanni e l’autore, in piccolo piccolo in fondo alla pagina, è – finalmente il suo nome! – Italo Calvino. Ecco ora ho la certezza. E quegli avogado li avrà mangiati anche lui settanta e forse più anni fa. Volo verso la barca, ho le farfalle nello stomaco, felice come un pirata che ha conquistato un tesoro segreto comincio a spellare i miei preziosi avogado nella cucina di bordo, li taglio a pezzetti, li schiaccio dentro una ciotola assieme a piccoli pomodorini, cipollina, olio, sale, peperoncino, lime e mentre taglio e sminuzzo con le mani non posso smettere di portarmi alla bocca questa polpa verde e succulenta e il suo sapore mi avvolge il palato e allora mangio pezzi interi di frutto e ne divoro con passione un pezzo dopo l’altro mentre esplode un gusto di terra, un retrogusto di pinolo, un avangusto di mare. La guacamole è fra le mie dita, ovunque sul bancone di cucina, nella forchetta, sulle guance, nei denti. L’ho preparata per il mio equipaggio ma un’istinto di assimilazione m’impone di fagocitarla senza respiro, di far mio questo frutto che ha la pelle ruvida del rettile e la polpa vellutata del riccio marino, sono nel pieno di una transe da avogado, tarantata nel proprio rito di possessione, ammaliata da un frutto che è anche cervello di poeta, che e’ la mano del padre, l’occhio della madre, il petto del suo giardiniere e mentre mangio questa famiglia cresce e sembra di mangiare l’albero intero ed ogni storia che esso ha accolto, o raccolto o nutrito ed ogni pensiero magico che ha generato nella mente dello scrittore e di chi ha letto. Ho mangiato lo scrittore e l’ho mangiato tutto e ne sono cosi’ sazia adesso che faccio appena in tempo a lasciare la scodella con la salsa sul tavolo dell’equipaggio e a ritirarmi in bagno ed ecco, mentre sento quelli banchettare e commentare su quanto sia buona la guacamole, io sono piegata in due davanti al gabinetto perche tutto quello che ho ingerito ha raggiunto ogni angolo del mio corpo, il piu periferico e adesso sta tornando indietro ripassando per i luoghi dell’ingestione, l’esofago e poi la bocca. Lo scrittore ha fatto un giro fra i miei intestini e adesso ne esce. E cosi io lo restituisco al mondo che me l’aveva concesso e nonostante tutto ho pensieri felici e la testa che mi gira. La mia transe da avogado e’ terminata ma ho dimenticato di svolgere il compito piu importante: conservare il seme per farlo rigermogliare. Dopo cinque anni una nuova barca mi ha condotto in questo porto e torno alla villa pensando a come rimediare. Cosa e’ un segno? Italo Calvino non vorrebbe fare l’agronomo. Il padre gli impone lo studio delle piante ma l’unico che segue con ardente passione la lezione del professor Mario è Libereso, il giardiniere che ha due anni in meno di Italo e due in piu di Floriano e che per le creature della natura ha un talento speciale. Libereso e’ figlio della primavera, mangia i fiori e parla con porcospini e serpenti. Libereso ripete a Italo quei nomi di piante che egli rifiuta di apprendere dal potere centrale, fatto di padre e di madre: da lui li accetta invece. Libereso è colui che gli svela il segreto per sconfiggere la formica argentina e che gli racconta di come germoglia un seme. Lo scrittore che non e’ un botanico condivide con la specie che lo ha generato e segretamente sedotto, talenti precisi: egli sa osservare e osservando ha imparato a trasformare il proprio sguardo in soggetto di indagine e l’indagine a restituirla in segno scritto che poi diventa prosa, ma una prosa che sia veritiera, mai fasulla. E cosi egli passa al setaccio di altra fitta indagine il suo stesso osservare e l’investigatore di segni, il decifratore, mai smette di interrogarsi prima ancora che sulla natura del segno, sulla natura di quel decifrare. Cos’è una mappa? E’ il 2019 e dal cancello di Villa Meridiana, giorni prima che mi venga consentito quell’infimo accesso di pochi minuti, decido di seguire alcune tracce. La mappa e’ stata scritta nel 1962, dieci anni prima che l’autostrada dei fiori animasse di nuovi ruggiti la valle sanremese, ed è elaborata sulla base di ricordi che risalgono agli anni Trenta, antecedenti alle schiere di fiori e alle colonie di serre, antecedenti al trionfo di Nilla Pizzi alla prima edizione del festival. Avventurarsi lungo La strada di San Giovanni significa leggere attraverso strati di ricordi, di territorio e di tempo, livelli sovrapposti e transmutati, amalgamatisi gli uni negli altri. E forse significa cercare una strada che c’è o che non c’è più, cosa che dipende sempre in fondo da ciò che si va cercando. Prendete questi beudi che l’autore cita di continuo. Cosa sarà mai un beudo? Lui scrive: al mattino presto, un giorno si e uno no, dobbiamo salire alla campagna con mio padre e aiutarlo a portare giù i cesti della frutta e della verdura. Escono di casa e seguono il beudo. E cioè? Dove sarebbe questo corso d’acqua che scorre lungo il muretto e sul quale s’arrampica il cane del professore ogni tanto? Ma certo, il beudo è quella canaletta, quel rigagnolo a cui non avresti mai dato tanta importanza oggi se avessi dovuto descrivere una strada. La canaletta oggi compare e scompare e soprattutto si riempie d’immondizia. Oggi il beudo è quasi una parte di fogna perché finisce spesso sotto il cemento e per un bel po’ la perdi del tutto di vista, oppure s’infila fra i muri alti di contenimento dei palazzi, spesso chiusi da cancelletti arrugginiti oltre i quali solo la polvere e lo sporco e i topi sanno passare. E nonostante tutto i beudi ci sono sempre, solo non sono più visibili come prima,e quando vedi che s’interrompono davanti al giardino di qualcuno o che spariscono fra rovi ed erbacce dietro un garage, con l’immaginazione occorre proseguirli e capire dove andare a intercettarne il continuo. Navigo una città invisibile che ne racchiude cento altre e che porta a una campagna dileguata e per farlo seguo la mappa dei ricordi di un poeta scomparso. La strada emerge e si eclissa come una canzone trasmessa nell’intermittenza di una frequenza radio. Al venir meno del sonoro si può continuare a cantare da soli e se si è capaci di restare nel ritmo, se si conoscono le parole, se si sanno rispettare le pause, i ritornelli, i giri strumentali quando il sonoro ritorna, il proprio cantato potrebbe coincidere con la canzone, ma se risulta un po’ più avanti o più indietro rispetto alla traccia allora si dovrà recuperare il terreno superato o quello perduto. La canzone è un ciottolato che riemerge sotto l’asfalto, il profilo di un ponte che s’intravede nel disegno di un muro in cemento, un vecchio cartello nascosto nel glicine che indica Baragallo, il quartiere in cui l’autore pone un limite e avvisa: da questo momento in poi accade qualcosa di straordinario, la perdita dell’anonimato, il ritorno all’origine, ecco che passa u fiu du prufessù e ancora prima di leggere queste righe è cambiato qualcosa anche per me, perché ora che la città si incammina su per le gole che portano alla montagna, la gente ha smesso di essere quell’indifferente maschera di sempre, di ogni città, e comincia a guardarti, a levarti la tua, a riconoscerti in qualche strana maniera, a dirti buongiorno, ad essere sorpresa e contenta del tuo essere arrivata fin la. Così quel cartello e quei saluti e quel ponte e quel ciottolato sono segni, elementi che stanno sulla mappa come sul territorio, lungo la strada di allora e di questo perfetto momento. La cosa sorprendente è che la mappa porta sempre e ancora da qualche parte, anche se la terra sotto i piedi ha cambiato aspetto consistenza e direzione, anche se i cittadini hanno applicato e chiuso cancelli in mezzo ai percorsi e l’anziana signora in zona Tasciaire che prova a far scendere il suo povero gallo giù dalla rete del pollaio prima che cada nel torrente, non sa più dove indicarmi un sentiero che segua l’acqua: un tempo si poteva, dice, ma ora non ne è più tanto sicura. Il percorso emerge a tratti e il sentiero conduce alla meta, o a una qualche meta che non è più la campagna dei Calvino, né più quell’orto da cui si riempivano colme le ceste di frutta e verdura da portare a spalla fino alle cucine di Villa Meridiana. Ma qualunque sia la stazione di arrivo essa ha sempre a che fare con un’emozione la quale incanta e stravolge lo sguardo. Fra i dodici mila volumi di materia botanica e non solo lasciati dalla famiglia Calvino alla Biblioteca civica di Sanremo c’è un libello sottile color azzurro datato 1938 e intitolato “Biologia floreale della persea drymifolia” . In questo opuscolo sono raccolte con rigore scientifico le osservazioni ecologiche eseguite da Eva Mameli Calvino sulla pianta “aguacate” coltivata a Sanremo, il mio avogado. Proprio attraverso il suo elenco si scopre la quantità di alberi allora presenti sul territorio sanremese e diffusi dal professor Mario Calvino grazie a un’abbondante quantità di semi che aveva portato dal Messico. La studiosa descrive con minuzia di particolari le caratteristiche della loro fruttificazione, dell’esposizione al sole al vento alla presenza di altre piante, del profumo di anice delle foglie, del sapore squisito di certi esemplari. Cita gli alberi di villa Meridiana che hanno allora dai 5 agli 11 anni e nomina gli alberi di San Giovanni. Un seme è una mappa? Google map ritiene che non esistano chiese nella zona in cui ne sto cercando una. Eppure l’autore della mia mappa racconta che la sua campagna termina dove comincia la chiesa e poi ricominci poco più su. Ormai ci dovrei essere. Dall’altro lato della vallata la vedo. La chiesa esiste ed è piccola e nella vallata sottostante i terrazzamenti accolgono vigne, uliveti, appezzamenti di orti. Ogni parte è scomposta, smembrata, riassemblata secondo logiche e successive acquisizioni a me ignote. Affondano nella valle di cui un tempo erano proprietari i Calvino, le enormi zampe dell’A10 e dal sagrato della chiesetta di San Giovanni le cui campane timbrano al momento del mio arrivo le due del pomeriggio, il triangolo di mare incastrato in fondo al panorama è interrotto alla vista da questi titanici piloni. Inutile avere rimpianti, quella nostalgia per qualcosa di non vissuto. Ogni tempo ha le sue delusioni, ma l’esserne affranti è pura illusione. Però non posso impedirmi di cercare con gli occhi gli alberi di avogado che Mario Calvino aveva tanto amato e che un tempo popolavano molti giardini e questo suo di San Giovanni. Ma non trovo avogado d’intorno. Una mappa può germogliare? Alla Biblioteca sono molto gentili. Continuano a portarmi i volumi che ho individuato e richiesto fino al tavolo dove ho preso posto, con un passo serafico che riecheggia nella grande sala. Quando il più giovane dei bibliotecari sta venendo a consegnarmi il libro su Libereso Guglielmi, il giardiniere di Calvino, non stacca lo sguardo dalla copertina, poi dice: “Io questo signore lo conoscevo, abitava davanti casa di mia suocera”. Poi su google map segna col dito il punto esatto. Libereso è passato ad occuparsi di chissà quale splendido giardino al di la del nostro pianeta tre anni fa, dopo aver trascorso novantuno primavere ad assaggiare la natura e rigenerarla. Il suo giardino è un intreccio di sensi, una piccola oasi indomita che pulsa di suoni e profumi e colore e terra e polpa e tutt’intorno ha Sanremo. Sono arrivata davanti al portone dopo aver commesso il furto a Villa Meridiana, mentre la signora affrettata tentava di spiarmi dal balcone e attendeva che in quel minuto visitassi il giardino e me ne andassi. Io avevo ben chiaro dove dirigermi in quel frangente. Del resto senza sapere che l’unica cosa che andavo cercando era ciò che involontariamente aveva nominato, l’aveva ammesso lei stessa nel suo breve commento alla ragione della mia visita: “Che cosa si aspetta di trovare? non è rimasto nulla di quel giardino. Giusto gli avogadi”. In quell’angolo appartato dove l’albero cresce da forse novant’anni ormai, lo sguardo della signora non può raggiungermi ed io passando, lesta come una faina, aguzzo la vista, individuo l’unico frutto che sono in grado di raggiungere con la mano e lo colgo. E’ piccolo e immaturo, forse inadatto a per creare germogli, ma lo prendo ugualmente, è tutto ciò che mi resta. Davanti alla casa di Libereso, mezzo chilometro più in su lungo la mulattiera di San Pietro, l’avogado di Villa Meridiana è nella mia tasca. Un piccolo tesoro che porterò con me. Adesso però non so bene cosa sia venuta a fare fin qui. Mentre attendo che il tempo passi e qualcosa accada una donna esce fuori da un cancelletto. E’ bionda: è lei penso, la moglie inglese di Libereso Guglielmi, la donna che aveva sposato alcuni anni dopo la chiusura della Stazione Sperimentale di Floricoltura e la sua partenza per l’Inghilterra dov’era diventato capo giardiniere e ricercatore di un importante orto botanico nei pressi di Londra. Quando mi decido a raggiungerla è troppo tardi, ha gia chiuso la porta di casa. Prendo coraggio e suono il campanello. Il suo accento è inglese, ma non è la vedova di Libereso e la casa, dice, non è questa. Ma non ho il tempo di affondare nella delusione perché l’attimo dopo ha preso un mazzo di chiavi e mi conduce al cancello dal quale era uscita pocanzi. “Sono la cognata” mi dice ed aprendo il cancello mi fa un cenno privo di verbo affinchè io entri. Non sa se qualcuno sia in casa, “provi a suonare” dice, ma intanto in un attimo sono dentro la piccola selva, sola e indisturbata. La primavera mi circonda d’improvviso. Fiori di passiflora, geranei, narcisi, ranuncoli, nasturzi, amarillis, cascate di callistemone, ventagli di papiri, cespugli di rose, tronchetti della felicità, archetti ricoperti di piante, fogliame, fiorescenze dai mille colori: la natura è in trionfo e senza che un’ordine sia stato attribuito per dirimerla e organizzarla, qui ogni pianta fa da se. Mi trovo sotto un grande albero e continuo a guardarmi intorno incantata. Col piede sento di aver pestato qualcosa di morbido, non so se sia un animale o peggio, mi guardo preoccupata la scarpa che ora è ricoperta di una crema verde. Di colpo il breve disappunto si trasforma in scoperta. Sono raggiante, sollevo la testa e guardo il fogliame di quest’albero grande. E come non avrebbe potuto Libereso far crescere in casa sua un seme di quell’albero tanto voluto dal suo amatissimo maestro di piante e di vita quale fu Mario Calvino? La Persea Drimifolia ha dato i suoi frutti che sono a forma di pera e penzolano come verdi pipistrelli sopra il mio capo, mentre tanti altri sono già caduti a terra e hanno ancora la consistenza del frutto cotto al punto giusto, buono da mangiare. Ne prendo tre che trasformo la sera stessa in una guacamole eclatante (ma stavolta evito la transe). Assieme a Santiago, il piccolo avogado partigiano, seme di Calvino, delizioso, con cui abbiamo finito di cenare, provo a far germogliare anche i semi di Libereso, adesso in Sardegna, nella doccia di mia madre.
Sanremo, 29 maggio 2019
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
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