Altra domenica, altro giro. Questa volta La Maddalena, la parte più alta dell’isola. Lascio la macchina a bordo strada e raggiungo il muraglione che circonda Guardia Vecchia. È una struttura enorme, appoggiata al centro dell’Arcipelago e da cui è possibile controllare ogni isola, ogni canale, ogni più piccola barca che decida di avvicinarsi al porto. Al centro dell’area fortificata sorge una delle opere più antiche su queste isole: una torre utilizzata ancora oggi per il controllo del traffico navale tra Corsica e Sardegna, costruita in più tappe a partire dalla fine del Settecento, su quello che resta di un edificio molto più antico. Si crede, e io credo, che si trattasse di una torre di avvistamento costruita dai Pisani nel Duecento, quando si affacciarono sulla Sardegna insieme ai Genovesi, per tirarsela di qua e di là come un brandello di carne. A duecento metri dalla macchina sono già nel pieno del percorso. Sto ancora costeggiando l’angolo di nord est della cinta e vedo sotto di me quello che resta di un impianto per il riciclaggio degli inerti, installato sopra l’ultima discarica a cielo aperto dell’isola, chiusa dopo il 1997 dal Decreto Ronchi. Ora è chiuso anche il centro di stoccaggio. La discarica, coperta dalle ruspe dopo la chiusura, è ancora viva. Dicono che il materiale accumulato per decenni continui a bruciare nel buio e senza ossigeno, per effetto di temperature altissime. Dicono anche che qualcosa stia iniziando a sgusciare via dal fondo della discarica e a scorrere lungo il fondovalle. Dicono. È qualcosa su cui cercherò di capire meglio nei prossimi mesi. Raggiungo lo spigolo a nord est e giro a sinistra. Sto cercando Pleurotus, il fungo della ferula, che in Sardegna ha tanti nomi: cardulinu ‘e pezza, antunna, ferrulazzu, sallazzaro. Quest’ultimo nome esiste solo qui,e sto cercando di capire perché; ho anche un’idea, un giorno ve la racconto. Tra i becchi di granito che sbucano ovunque, ogni tanto si fa spazio un lembo di bosco: dieci alberi, venti, non di più. E io mi ci infilo, a caccia ti porcini tardivi; ne trovo solo uno, grosso, completamente bianco per la muffa che lo ricopre. Riprendo a muovermi verso ovest e ogni tanto mi fermo a guardare la Corsica. Oggi c’è un bel sole, poco vento che non riesce nemmeno ad asciugare il muschio sulle rocce. Sembra primavera e per certi aspetti lo è. A un certo punto sento ali che sbattono. Non faccio in tempo a fargli foto: è un germano reale che si stava sollazzando in una pozza e a cui ho rotto le scatole. Per questa zona è un incontro insolito. Più in basso c’è il bacino artificiale, che dopo l’alluvione trabocca di acqua e uccelli di passo. Ma quassù… Mi colpisce una cosa, di quel tratto. A sinistra corre il terrapieno che protegge il forte: qualche chilometro di muro in pietra per quattro, cinque metri di altezza. Alle mie spalle si intravede ancora la discarica: sta per sparire ma ancora si vede. Lontano, in basso, l’ex villaggio delle famiglie americane, vuoto dal 2008. Sparse nella campagna, ancora più lontane, pochissime case. Non sembra un’isola abitata. Tra l’altro, a parte i tralicci dell’alta tensione e qualche muro a secco risalente alle chiudende, nel raggio di almeno cinquecento metri non trovo segni di invadenza umana. Non una bottiglia, non una cartaccia, nulla. Il fatto che la discarica sia sottovento rispetto al ponente, che qui comanda, fa sì che la zona sia rimasta pulita nonostante la sporcizia accumulata poco distante per anni: “la campagna è pulita” penso e mi illudo. Fino a che non mi compare davanti il primo ginepro completamente secco. È un segno dell’invadenza dell’uomo, altroché. Siamo presenti anche qui, anche in questo modo subdolo; anche senza cartacce, anche senza lattine disperse. È la globalizzazione. Piante della macchia che si seccano e muoiono, con una progressione a macchia di leopardo che mette paura. È una fitopatia. È un fungo (in realtà sono molti) che attacca certe specie ma che è in grado di estendersi anche ad altre: penetra la pianta dalle radici o dalla chioma, e la devasta. Si tratta di patogeni probabilmente arrivati in Sardegna con frutta e verdura coltivate altrove. Basta una discarica di rifiuti organici, una buccia di banana buttata su un sentiero, uno scarpone che porta il fango da una zona all’altra, un cinghiale che struscia il pelo su una pianta infetta e si infila nella macchia, e les jeux sont faits. Scatto due foto, scaccio i pensieri brutti e me ne vado. Finalmente raggiungo un pianoro di macchia bassa su cui svettano decine di ferule. Mi avvicino e inizio a girarmele una per una. Non trovo nulla e sto per cambiare zona, quando poco più su di un ruscello vedo un gruppo di funghi. Bellissimi. A occhio saranno almeno un chilo e mezzo. Chiari, apparentemente sodi. Poggio il cestino, estraggo il coltello, lo apro e mi inchino per iniziare i tagli. Fanculo. Il primo è zuppo d’acqua e manda cattivo odore. Taglio il secondo. Idem. Lamelle già staccate dal cappello e muffa dappertutto. Stessa cosa per gli altri. Tengo i tre più sani e lascio gli altri al loro posto. Riprendo a muovermi. Ormai sono sotto il muraglione. Visto da vicino è imponente. Ricorda le mura che si vedono in molte città antiche: Pisa, Roma, Cagliari. È anche normale che sia così. Sono mura militari, con funzione anti assedio. L’effetto, per chi guarda da sotto, deve essere lo stesso nei secoli. L’amianto però non c’entra nulla. Sotto il muro, in una posizione che indica chiaramente la provenienza del materiale (dall’interno del forte), un vecchio serbatoio per l’acqua, fatto a pezzi e buttato giù, senza neanche la delicatezza di sotterrarlo o pitturarlo o avvolgerlo per contenere la dispersione delle fibre. Nulla. Amianto nudo buttato alle intemperie da chissà quanti anni. I pezzi sono neri, coperti di muschio. Questo significa che la struttura è lesionata dalle incrostazioni, e le fibre si staccano più facilmente. Scatto un paio di foto da allegare alla segnalazione e mi allontano. È una sensazione strrana. È più di un ora che cammino fuori da ogni sentiero, in bilico tra schifo e bellezza. Sarebbe un posto perfetto, senza quei segni. Sarebbe una mattina perfetta. Chilometri in campagna senza incontrare nessuno, a parte il germano reale. Raggiungo lo spigolo di nord ovest delle mura. E mi fermo un attimo per decidere. Non solo non c’è sentiero, ma qui il terreno, o meglio il granito, comincia a farsi ripido e alla fine del dislivello inizia una vallata di macchia alta che a occhio e croce mi farà sputare l’anima prima di lasciarsi attraversare. Però indietro non ci voglio tornare. Ormai sono qui, a quasi metà del giro. Vado avanti. Qui il sole non è ancora arrivato. Sono le undici ma la pendenza e l’esposizione a nord ovest delle rocce tengono le superfici ancora in ombra. E il muschio sembra insaponato. Scivolo una prima volta e riesco a mala pena a tenere l’equilibrio e il cestino. Decido di rallentare e di ragionare su ogni passo, giusto per evitare di fracassarmi il cranio. Mentre scendo verso il fondo del canalone, tra le rocce sotto la muraglia vedo pezzi di motore, scheletri di divani letto con la rete a molle, bottiglie di vetro. E penso: ma cosa porta una persona a prendere un rifiuto ingombrante e a buttarlo in mezzo alla campagna? Che tipo di disordine interiore? Che genere di scollamento dal mondo? Dobbiamo rassegnarci a considerare, tutto questo, “paesaggio”? Certa violenza è parte integrante del “paese” che siamo. Prima o poi dunque, anche questa violenza potrebbe diventare, a buon diritto, “paesaggio”. Un pensiero mi consola: è tutta spazzatura vecchia, di dieci o anche vent’anni, come se dopo gli uomini avessero capito e avessero smesso di buttarla a casaccio in mezzo alla campagna, o come se fossero semplicemente scomparsi. Almeno da qui. Riprendo a concentrarmi su dove mettere i piedi. E per fare le cose più attentamente, prendo i funghi che avevo con me e li poggio in mezzo all’erba, vicino a delle ferule, pensando che saranno più utili così che dentro la mia compostiera, dove probabilmente sarebbero finiti. Dopo cinque minuti sono sul fondo. Davanti ho una specie di muro verde. Trovo una zona dove mi sembra di poter entrare e ci entro. Mi muovo a tre, quattro metri al minuto. Ogni tanto uso il coltello per tagliare qualche ramo di stracciabraghe, e nel frattempo mi grattugio per bene le braccia e la faccia. Ma va bene così. È una sensazione bellissima, a parte tutto. La tipica situazione in cui l’unica cosa che puoi fare è andare avanti. Sembra una cazzata, e forse lo è. Ma è una cazzata che non tutti amano fare. Dopo cinque minuti di intrico, trovo un passaggio aperto dai cinghiali. È una specie di tunnel che si perde nella macchia e ogni tanto si dirama. Decido di seguire un tratto che va in salita, perché mi sembra la cosa più logica. Rispetto a prima è una specie di autostrada. Infatti, dopo altri cinque minuti, sono dall’altra parte. Il resto del tragitto è quasi noioso. Macchia bassa, rocce, qualche prato e alla fine un sentiero e la strada asfaltata. Tornando alla macchina completo il giro delle mura: Caprera e Monte Moro sulla mia destra, Guardia Vecchia a sinistra. La torre se ne sta lì da due secoli e mezzo. Le sue fondamenta, almeno da otto. Chissà come saranno queste isole da qui ai prossimi duecentocinquanta anni. Chissà.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un…. (di Giampaolo Cassitta)
Cutolo e l’Asinara (di Giampaolo Cassitta)
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Break news: Fedez e Francesca Michielin vincono il Festival di Sanremo.
Grazie dei fior. (di Giampaolo Cassitta)
Hanno vinto i Maneskin. Anzi, no. (di Giampaolo Cassitta)
Perché abbiamo bisogno di Sanremo (di Giampaolo Cassitta)
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Capri d’agosto (di Roberta Pietrasanta)
Il caporalato, il caporale e i protettori (di Mimmia Fresu)
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