In questi giorni c’è stato un proliferare–oddìo, fatte le debite proporzioni sarde–di articoli sull’identità.
Ne presento due: uno di Giulio Angioni e uno di Omar Onnis, che ad Angioni si ispira.
È passato un anno dalla pubblicazione del mio libro Le identità linguistiche dei sardi, ma questi signori non ne tengono conto.
Sia Angioni che Onnis sono negativi verso l’identità.
Angioni: “L’irrigidimento delle identità e il rafforzamento dei confini culturali possono essere armi di offesa e di difesa che possono arrivare a uccidere, secondo una nota espressione di Sen. Ma l’operazione di fissare differenze culturali, celando intenzionalmente somiglianze e continuità, mira alla costruzione di un rapporto contrastivo di relazioni fra due o più gruppi, deviando di fatto l’oggetto del contendere dall’ambito dei rapporti di potere, di dominio e dipendenza/subalternità a quello più genericamente culturale o addirittura di carattere unicamente religioso.”
Onnis: “Non si fa appello al sangue e all’etnia, perché suonerebbe male, ma in realtà questo aspetto è appena appena attenuato. Il problema è che “l’unione di terra e sangue può solo far venire il tetano”, come diceva Karl Kraus. Poco importa se al posto di “sangue” vengono usati termini apparentemente meno forti (“lingua”, “glorie passate”, “identità”, o chissà cos’altro): siamo in quei paraggi.”
C’è da notare che se, da un lato, Angioni evita accuratamente di parlare di lingua–chissà perché?–Onnis accomuna la lingua al “sangue”: leggi “razza”.
Angioni–ma il suo novello apprendista,Onnis, lo segue–sembra conoscere soltanto il concetto di identità cavalcato dalla destra razzista e in alternativa ci propone il solito cosmopolitismo della sinistra storica: “Come è stato più volte ipotizzato in diverse analisi dei Cultural Studies, a partire da Stuart Hall, l’accentuazione e la proliferazione delle differenze culturali nel mondo globalizzato attuale è funzionale all’occultamento del controllo economico di poche grandi multinazionali, un modo, fra le altre cose, per naturalizzare e stabilizzare i rapporti di potere attuali, riversando sulle diversità etniche o culturali il malessere di coloro che vengono schiacciati dall’egemonia del capitale internazionale.”
Che anche gli stati “nazionali” schiaccino le diversità etniche e culturali ad Angioni non passa per la testa.
No!
Non pensate alla malafede.
Proprio non ce la fa.
Anzi, non lo so.
Il porre sullo stesso piano gli interessi di tutti–massì, usiamo il termine storico–gli sfruttati, invitandoli a porre da parte le differenze culturali e linguistiche–“Proletari di tutto il mondo, unitevi!”–è soltanto l’immagine speculare, ma perfettamente equivalente, dello slogan nazionalista e interclassista “Siamo tutti italiani!”.
In entrambi i casi si tratta di anteporre gli interessi di chi ha il potere a quelli di chi non lo ha.
Non dimentichiamoci che “internazionalismo”, nella pratica del “socialismo reale” ha finito per significare gli interessi della Russia.
Cosa c’entra l’identità con tutto questo?
Tutto e niente, ma se tu, sardo, non riesci a distinguerti psicologicamente/culturalmente da un generale italiano e bombarolo, hai un problema: quello ti bombarda.
Angioni dice in maniera dotta che l’identità non esiste.
Allora, tanto vale adottare l’identità della maggioranza: “Siamo tutti italiani!”
Cioè, io non avrei, in quanto sardo, nessuno strumento culturale–psicologico–che mi aiuti a distinguere i miei interessi da quelli di un (generale) italiano. E questo malgrado il generale bombardi me, ma non i suoi connazionali.
Allora, “Siamo tutti italiani”, almeno come fase intermedia verso il “Siamo tutti esseri umani”, eh!
Insomma: basta non dire e non pretendere che siamo sardi.
Per ora, perché poi sorgerà il “Sol dell’avvenire”.
Insomma, Angioni vuole che ci indentifichiamo–provvisorimente, eh!–con lo stato, con il potere, con la maggioranza.
Infatti li assolve dalla colpa di opprimere le minoranze.
No, quello lo fanno le multinazionali e solo loro!
Non so voi, ma non ho mai letto alcuna invettiva di Angioni–almeno recente–contro le servitù militari che l’Italia ha imposto alla Sardegna.
Né quelle del Divo Giulio, né quelle dei suoi compagni italiani.
A proposito di “sfruttati” di tutto il mondo che si uniscono.
Allora, se è falso–con le dovute eccezioni–dire che gli sfruttati e gli sfruttatori hanno gli stessi interessi (interclassismo), è altrettanto falso dire che gli italiani e i sardi hanno gli stessi interessi, sempre e comunque.
Questo “internazionalismo” a stracu baratu ha offuscato perfino menti meno labili.
Figuriamoci!
E l’identità?
Se gli interessi dei sardi e quelli degli italiani non coincidono, sappiamo tutti come va a finire.
I generali bombaroli bombardano la Sardegna e non Roma o Milano.
Perché i sardi glielo permettono?
Se i sardi avessero un’identità forte questo non succederebbe.
Nessuno potrebbe spacciar loro la barzelletta del “siamo tutti italiani e poi bombardiamo solo voi”.
Ma cosa è l’identità?
Se aveste letto il mio libro lo sapreste.
L’identità è quell’insieme di comportamenti condivisi da una comunità, che permette a un suo membro di identificarsi con essa e di definirsi come membro di essa.
Dietro questa pratica condivisa–come dice Judith Butler–non c’è niente.
Come dice anche Angioni, ma senza trarne le debite conclusioni: “l’identità non è un modo di essere, ma un modo di fare”.
Allora, visto che quello che dice Angioni sull’identità non sono fesserie, a dare un identità ai sardi non è il fatto di essere gli abitanti di un’isola–il mare–ma il fare quello che solo i sardi sanno fare: parlare il sardo (gallurese, sassarese, tabarchino e algherese).
Angioni–la cui dolce metà seguiva regolarmente e commentava il mio blog personale–non può non conoscere il mio libro.
Almeno nelle linee generali, che ho pubblicato mille volte nel blog.
Angioni si limita a dire cosa non definisce l’identità.
Non parla invece di cosa la definisca.
Angioni–lo sappiamo da tanti anni–non ama il sardo e l’identità sarda.
A lui adesso–ma anche questa non è una novità–si è unito l’apprendista Omar Onnis.
Insomma, quando non ho niente da dire, posso sempre aprire un dibattito con loro.
Speriamo che voi vi divertiate, ma ne dubito.
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