Giovedì mi sono svegliato pieno di determinazione. Dovevo impedire ad Angelo di trascorrere la sua prima giornata di vacanze pasquali, e tutte le restanti, appiccicato ad uno dei suoi giochi elettronici. La giornata era tutta un bagliore primaverile. Col passare degli anni, trovo sempre più innaturale intravedere il sole attraverso i vetri di una finestra. Ho preparato lo zaino con due panini, due arance, una bottiglia d’acqua e me lo sono appeso alle spalle. Sembravo uno pronto a varcare la porta carraia di una galera.
Ho tirato giù Angelo dal letto e siamo partiti per una lunga passeggiata. Io portavo i pantaloncini corti, lui la tuta da ginnastica.
Avanzando contro la corrente del paese, in direzione contraria al suo dilatarsi, siamo finiti in mezzo alla campagna. La prima gobba del mondo a Lu Pastruccialeddu, la discesa verso l’albergo Il Borgo degli ulivi, la risalita verso Rena, poi Agghimatogghju (che se non sei gallurese, col cazzo che riesci a pronunciarlo giusto). Camminavamo a buona andatura e io ero contento che lui non stesse là a pigiare come un epilettico sui tasti di un telefonino. Faceva caldo, ma non abbastanza da scoprirsi. Il mondo era uno spettacolo. “Vi portano mai a fare lezione all’aperto, a scuola?” “No”.
Poi, non mi ricordo il perché, siamo finiti a parlare di storia. Avevamo appena superato la salita aspra e davanti c’era il mare, dal mio golfo fino alle Isole dell’Arcipelago. Davanti a tutta questa natura mi sento parte del mondo, più di quanto non me ne senta parte quando sto immobile tra quattro pareti. Anzi, ora mi è venuto in mente perché abbiamo parlato di storia: lui mi ha chiesto se davvero con le armi nucleari si potesse distruggere il mondo intero, allora io gli ho raccontato della guerra fredda, dei missili a lunga gittata Pershing e Cruise, di quell’ansia che da ragazzino sentivo opprimente, della strategia della tensione, della cortina di ferro, della crisi di Cuba. “Ci ho fatto una ricerca in terza media, fui premiato”. Gli ho promesso che avremmo visto assieme The Day After.
“Ma perché studiamo la storia? È vero che la studiamo perché capendo gli errori del passato possiamo evitarli in futuro?”
Ho risposto con una smorfia. Mi infastidisce questo ridurre la memoria ad una rubrica telefonica. “Io credo che si studi la storia perché ci appartiene, perché non possiamo farne a meno, come un pittore non può fare a meno di dipingere e uno scrittore di scrivere. Non c’è un calcolo, un obiettivo da raggiungere, è così e basta. La storia è una persona e una persona non può ignorare quel che ha alle sue spalle, le viene spontaneo ricordare e riconoscersi in un percorso. Certo, abbiamo anche la necessità pratica di farci una ragione del cambiamento, quel che chiamiamo tempo, associandolo ai fatti. Ci serve intagliare la corteccia di un albero per segnare il sentiero”.
“Perché ti piace la storia?” Ed è stato in quel momento, davanti ad una fila di asfodeli, che siamo caduti su Tolstoj. “Nel primo capitolo de La Morte di Ivan Il’ Ič, Tolstoi descrive l’imbarazzo e il non saper come comportarsi di una persona quando entra in una camera ardente. Ma le convenzioni impongono di stabilire una relazione gestuale col cadavere in mezzo alla stanza e a questo obbligo non ci si può sottrarre. Ecco, mi sento meno solo nel sapere che 120 anni fa, davanti ad una bara, uno dei più grandi scrittori della storia annotava le stesse stupide paure che paralizzano me, oggi, in quella situazione”.
Abbiamo continuato a camminare. Ora scendevamo da Micalosu, verso il Golfo. “Non puoi capire tutta la violenza di oggi se non sai nulla del periodo coloniale e della schiavitù”.
Ed ecco che Angelo è diventato un torrente di parole. Gli sono tornati in mente la tratta dei negri, i porti di Nantes e Liverpool per smistare gli schiavi, le donne e i bambini gettati nell’Oceano quando il carico era troppo pesante per affrontare la tempesta. Donne e bambini, perché i maschi erano forza lavoro, la merce più pregiata di cui non ci si poteva privare. “Babbo, è molto strano: mi ricordo tutto e non ricordavo di sapere tutto questo”. “Siamo all’aria aperta, i pensieri scorrono meglio, gli occhi non sono limitati dal confine di una stanza. È gli occhi sono il terminale della mente”.
Avrei potuto parlargli della scuola peripatetica, ma non l’ho fatto.
“Con la bella stagione dovreste fare lezione all’aperto, dovreste avere un insegnante che vi parla delle piante che avete attorno e vi insegna a riconoscerle. Lo vedi questo? È un albero di acacia, i mobili del soggiorno di casa sono fatti di legno d’acacia. Vedi quel cespuglio? Quanti di voi sanno che è cisto? Potreste parlare di letteratura, matematica e storia all’aria aperta Il mondo è qua fuori, non dentro l’aula. La scuola dovrebbe insegnarvi a stare al mondo e non a sedere composti dentro una stanza”.
Siamo arrivati in spiaggia. “Ora che ci penso, una volta un insegnante ci ha portato all’aperto a fare lezione”. “Solo una volta?” “Si, perché quando la cosa si è saputa è stato severamente rimproverato dal suo capo. Lo hanno accusato di essere un irresponsabile”.
Abbiamo camminato per undici chilometri. Negli ultimi due Angelo è tornato ad assillarmi con gli argomenti che preferisce, tipo come fare soldi a palate postando video su Youtube. Però quando ha parlato della schiavitù e di ragazzini della sua età gettati in mare, in quanto zavorra, ho colto rabbia viva nelle sue parole. La camminata, poi, gli è piaciuta molto. La giornata è andata bene.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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