Piccadilly. Roba delle 2 del mattino o anche più tardi. E sembrava giorno. Il chiasso, le luci, i negozi aperti, le macchine. E la gente. Uno disse -Andiamo in albergo che sennò domani siamo distrutti. Scendemmo a non so quale livello della metropolitana e subito mi si appese alle balle un tizio di due metri. Hulk. Solo che anziché verde era nero. Un gigante nero, con gli occhi rossi e cotto come una pipa a chissà che cosa. Mi aveva sentito gridare qualcosa ai miei amici in Italiano. E non si schiodava. -Amigo, amigo italiano. Io conosco Italia. E metteva le mani addosso, rompeva i coglioni, un fiato tipo cenetta a zimino di topo. Il coraggio di mandarlo affanculo non ce l’avevo ma non è che ci tenessi a coltivare l’amicizia. Per di più i compagni di viaggio anziché aiutarmi si pisciavano dalle risate. Stronzi. Avrei voluto vedere loro. E vale anche adesso, se mi state leggendo. Insomma, riuscii a seminare il nero (lo confesso, ero incazzato e lo chiamavo negro e non perché in Italia non è un insulto, ma proprio perché volevo insultarlo: ma senza farmi sentire da lui) e arrivammo al livello giusto per il nostro treno. E sentimmo gridare, voci e richiami concitati. In Inglese. Quindi non capivamo un batacchio. Poi il suono di strani fischietti. Non erano arbitri né goliardi alla festa delle matricole. Polizia. Come giornalista ero ancora giovane e pieno di entusiasmo. Tendevo a fottermene molto meno di adesso. E quindi l’agitazione con contorno di polizia mi incuriosiva anche se giocavo fuori casa. Andai nella mischia e chi vidi in mezzo ai binari? Il nero maledetto, of course. Si dimenava ubriaco più che mai in quel canalone dove da un momento all’altro doveva passare il treno e nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi: anche perché, mi fece capire qualcuno, c’erano problemi di corrente elettrica ad alto voltaggio contro la quale Hulk poteva andare a sbattere, lui e i suoi soccorritori in una arrostita generale. Mi venne un’idea. Mi affacciai con prudenza sul canalone e gli urlai. -Amigo, amigo. Vieni qui! Sembravo Anita Ekberg nella fontana di Trevi. “Marscelo, come here!”. Ancora ero giovane e bellino. Quello mi sentì, si voltò, mi vide e si illuminò. -Amigo, amigo, io venire. Scavalcò i binari, si allontanò dall’alta tensione e cinque o sei tra poliziotti e personale della metropolitana gli balzarono addosso e lo trascinarono in qualche galera nei meandri del tubo, mentre noi salivamo incolumi e intatti (soprattutto io) sul nostro treno. Perché ve lo racconto? Per due motivi. Il primo è che uno dei partecipanti a quel viaggio ha preso a narrare sui social i suoi ricordi di quarant’anni fa. E quindi, prima che questa faccenda vi arrivi distorta, magari nella vulgata che furoreggia da decenni nella nostra greffa, cioè che trascorsi la notte con il nero e la mattina avevo una faccia strana, ecco, prima che accada, vi ho detto come andarono realmente le cose. L’altro motivo, quello serio, è che fu il mio primo viaggio low cost, il primo di una lunga serie che rese più bella la mia vita di sardo. Così come credo che Ryanair abbia cambiato in meglio la vita di tutti i sardi. Ricordo quella notte a Piccadilly. E, scherzi a parte, non per il nero rompiballe, ma per la possessiva sensazione di essere volato all’improvviso in un altro meraviglioso mondo ,mentre soltanto poco prima ero nel mio altrettanto meraviglioso ma diversissimo mondo. Voi ragazzi ci siete abituati, ma sapete che cosa significava roba così per per uno della mia generazione? Trovarmi di notte nel fragore della piazza abbagliante, a Piccadilly Circus, mentre la mattina stavo ancora litigando con il capocronista, a Sassari, per avere il permesso di andare via un po’ prima la sera per partire a Londra. Non era ancora Ryanair. In quegli inizi di anni Settanta il low cost dalle nostre parti si chiamava Lorviaggi. “Lor” significava Loriga, “viaggi” significava viaggi. Loriga era un signore che rideva soffiando tra le labbra. E rideva sempre e ti metteva di buonumore. Organizzava voli charter diretti tra Fertilia e un po’ di capitali europee. Se riusciva a mettere insieme un gruppo consistente, a poche lire ti dava l’emozione di cambiare aria da un momento all’altro. Allora, nelle linee normali, viaggiare era lungo e costoso. Dovevi cambiare aereo, pagare un mucchio di tratte e spesso pagarti anche qualche pernottamento in albergo vicino ad aeroporti di passaggio. Buttando via quattrini e giorni effettivi di viaggio. Poi arrivò Ryanair e il low cost fatto di episodici charter che coprivano al novanta per cento solo esigenze turistiche e al dieci qualche spostamento per lavoro, divenne un vero e proprio sistema di collegamento per la Sardegna accessibile a tutti i sardi. Noi Ryanair l’abbiamo presa per il culo per i gratta e vinci offerti dalle hostess, per la fila in più di sedie che ti costringeva a piegare un po’ di più le ginocchia, per quando volevano farci pagare l’andata al cesso, per il bagaglio a mano che non sai mai se quel giorno sono di buon umore e te le fanno imbarcare senza storie, perché il personale di bordo è un po’ ruspante e, pur gentile e competente, non circola con un manico di scopa infilato su per il culo, come quello delle compagnie più altolocate (quelle che poi falliscono e ti lasciano seduto sulla pista di rullaggio). E mentre noi la prendevamo per il culo, Ryanair si è sostituita, guadagnandoci per di più un mucchio di soldi, a una classe politica sarda incompetente perché non ha saputo onorare il principale dei suoi doveri: quello di assicurarci una vera continuità territoriale. Di sostituire, con gli aeroplani a costi accessibili e con sufficienti voli, le strade asfaltate e i binari ferroviari che la nostra condizione di isola ci nega. Ryanair ci ha cambiato la vita in meglio, con tutti i suoi limiti, con la sua trombetta che squilla all’atterraggio, con i voli che, anziché nel silenzio ovattato rotto solo dallo sfoglio dei giornali distribuiti gratuitamente, si svolgono in un clima da corriera con afrori di panini, cotolette, mandarini e coretti spinti. Non viaggi in prima classe, ma viaggi. Ryanair è potenziale oggetto di studio per i nostri antropologi. Io sono sicuro che avrebbero molto da dire – se già non lo hanno detto e a me è sfuggito – su come sia cambiata la figura dell’emigrato sardo nei Paesi europei. Non esiste più la principale caratteristica psicologica e sociale dell’emigrazione, quella di un distacco fisico e poi totale con la propria terra. Potere tornare solo a Natale o alle ferie estive significa andarsene, significa, quando torni, essere estraneo in casa tua. Ma potere tornare da Londra o da Berlino o da dove volete voi ogni fine settimana a 35 o 40 euro (se prenotate per tempo) non significa essere emigrati ma vivere a cavallo tra due mondi, accettare un lavoro lontano senza rinunciare alle proprie radici, se ci tenete a non reciderle. Ed emigrati a parte, Ryanair significa che anche uno che non è ricco ma ama il teatro può concedersi una Carmen all’Opéra di Parigi, una Bohéme al Royal Opera House di Londra, uno Schiaccianoci al Deutsche Oper di Berlino, persino (sempre se prenoti in tempo) sedere a due metri da Muti che dirige sul podio della Konzerthaus di Vienna. Prima di Ryanair ciascuno di questi piaceri mi costava un mese di stipendio. E non di biglietto per il teatro ma di biglietti per gli aerei che era necessario prendere. E qualche rara volta io potevo permetterlo. Migliaia di altri sardi non potevano e hanno potuto soltanto da Ryanair in poi. Badate bene, non voglio dire che gli irlandesi volanti e tutte le altre compagnie a basso costo venute dopo di loro siano dei benefattori. Ci avranno guadagnato. Ma noi, credo, più di loro. E ora siamo così coglioni da farli volare via. Che delusione. Forse quella notte avrei fatto meglio, dopo avere attirato via dai binari il negro ubriacone, a trascorrere la notte con lui. Così sarebbe stato il mio primo e ultimo viaggio low cost e ora non saprei che cosa rischio di perdermi.
pubblicato il 3.12.2015
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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