Avevo la netta e fredda sensazione di essere osservato. Non avevo occhi per scrutare e non sentivo la necessità di doverlo fare. Non c’erano né ombre né respiri che mi facessero pensare di essere al centro dell’attenzione. Al centro dell’attenzione. Dio, quanto mi piaceva. Una volta. Io, l’unico. Il supremo. Quella folata forte di adrenalina che camminava dentro e sciacquava i pensieri e li montava e li trasformava in atti inconsulti da parte di piccoli uomini che non erano amici e non erano parenti e forse, neppure cortigiani. Servi. Probabilmente servi. Schifosamente servi che gioiosamente applaudivano ma, dentro – e io lo vedevo, cazzo, lo vedevo – avevano bottiglie di lacrime nascoste e rabbia e speranza che un giorno tutto questo potesse finire. Un giorno neppure tanto lontano. Questo pensavano di me. Questo non dicevano di me. Tutti spariti. Servi e servitori. Bianchi e levigati corpi disegnati da matite di chirurgo e non dalle loro mamme, pance appiattite e disadorne. Sorrisi anoressici e seni inespressivi. Non ridevano e non sapevano neppure che si potesse farlo. Interessati soltanto a seguire la mia ombra e nasconderla e proteggerla. Io camminavo senza lasciare tracce. I miei uomini e le mie donne lavoravano per cancellarle. Questo si diceva di me. Una volta. In questo dannato e schifoso momento ero solo. Terribilmente solo. Ma qualcuno, che non percepivo, che non sentivo, che non potevo neppure prevedere in questo preciso istante mi osservava. E’ sinceramente imbarazzante sentirsi nudo dentro gli abiti che ti porti addosso, cravatta compresa. Potevo, per esempio, accendere una sigaretta, la mia Camel senza filtro – perché il filtro è comunque un compromesso tra il fumatore ed il tabacco ed io, da sempre, non accetto compromessi, non sopporto chi crea le condizioni del dialogo, odio narcisisticamente chi è per il mondo, per gli altri, per qualcosa e mai per se stessi – ma, nonostante il sapore e ‘l’odore e l’orgasmica sensazione che si ha quando si aspira fortemente e consapevolmente, non mi sarei sentito meno solo. Forse, una telefonata poteva modificare i miei piccoli e acidi umori. Telefonare. A chi? Ecco, in un mondo dove tutti hanno in tasca uno strumento per parlare, nessuno ha voglia di comunicare. Non volevo sentire la voce di nessuno. Nessuna intonazione, accento, sorriso deferente, silenzio sarcastico – perché sono i silenzi che hanno dentro le parole più dense – dolci disquisizioni o deboli lamenti. Non ci sono amici dentro momenti tragici. Questo è, appunto, un momento difficile. Terribile. Meglio. Mi trovo davanti al mio peggiore momento. Non che non ci sia abituato. Non è questo il punto. Semmai, per la prima volta non so gestirlo. Meglio, ho la consapevolezza di non poterci riuscire. Perché io sono un uomo lucido, scontato e pragmatico. Non sopporto la fantasia. Non me lo posso permettere. Non posso neppure sbagliare. Non devo. Non per gli altri dei quali, sinceramente, non mi sono occupato se non per epidermici problemi – sono pragmatico – Non posso sbagliare perché io non sbaglio. Non è previsto. Io, non ho paura. Perché la paura la conosco e la so dosare. Al paese mi ricordano per questo: Tex Willer. Così mi chiamavano tutti, fin da piccolo. Eppure, mentre muovevo i miei primi passi – quelli reali intendo, a scuola, nei campetti di calcio – decisi di stare da qualsiasi parte. Tranne che con gli indiani. Ma, anche questo – fin da piccolo – non era vero. In realtà, non stavo da nessuna parte. Non mi potevo permettere questa scelta. Fin da piccolo. Tex Willer. Che poi m’incazzavo, anche se disegnavo un breve sorriso di circostanza. Non dentro i battiti del cuore però. Non mi hanno mai interessato questo genere di sensazioni. Capisco che può sembrare decisamente rimarchevole o, come si usa dire in questi anni, politicamente scorretto, ma io – fin da piccolo – ho, nel massimo delle mie espressioni, ghignato. Un ghigno che non nasceva da nessuna parte. S’era presentato in faccia e avevo deciso di tenermelo. Era un ghigno che riusciva a mantenere le distanze. Ho cancellato i sorrisi e non ho mai sopportato le smancerie, le ragazzine che, di soppiatto, ti osservavano nella speranza di uno sguardo incrociato accompagnato, magari, da un lieve sorriso. Quello che avevano tutti i bravi ragazzi. Quello che, a tredici anni avevano quasi tutti i ragazzi, anche i meno bravi, perché la vita, dentro quei primi anni, la gestiva in buona percentuale l’ingenuità. Nessun sorriso adolescente. Non l’avrei mai concesso, non l’avrei mai potuto concedere. Ero l’esatto contrario di un bacio acerbo e dolce, di un sussurro disegnato con gli occhi, di un qualcosa che potesse avvicinare, anche distrattamente alla figura femminile. Con il tempo avrei modificato qualcosa. Non sopportavo né carezze né abbracci e neppure tenere effusioni. La bocca – quella delle donne che ho avuto – serviva per altro. Esclusivamente. Non amavo i contorni ai discorsi e le parole e micio piccola come mi piaci perché mi guardi e dove guardi ma sei carina molto carina un po’ soffusa e trasparente prova a chiudere gli occhi. Odiavo l’incalzare dei gridolini, il modificarsi della voce delle donne. Di tutte le donne. Adesso lei arriverà Ne sono certo. Forse manca un’ora all’attimo finale. Forse meno. Non saprei. E’la prima volta che non ho dalla mia parte la consapevolezza del tempo. Non l’orario. Non ho mai sopportato gli orologi che scandiscono schematicamente la mia vita. Ricordo l’unico orologio che ho posseduto. Era quello che mio padrino mi regalò alla cresima. I tempi erano quelli degli orologi. Oggi è quello dei cellulari. L’orologio della cresima era addirittura laccato in oro. L’ho subito scambiato con un mio amico per la raccolta completa di Zora la vampira. Una trentina di fumetti dove si vedevano solo i culi ed enormi tette con capezzoli perfetti. Ma sempre con le mutandine e le scopate si immaginavano soltanto. Zora la vampira. Dio, è passato davvero tanto tempo. Tutto molto lontano. Rarefatto. Zora la vampira. Poteva riapparire solo oggi. Il mio ultimo giorno. E’ passato quasi un secolo. Più che ricordi, sono rughe della storia. Quando, nel pomeriggio, con Antonio e Perdalega si andava negli oliveti di Salondra ad abbassarci i pantaloni e far vedere chi lo aveva più lungo. Non era una questione di centimetri. Era la volontà ferrea e risoluta di appartenenza ad una razza: quella dei maschi eterosessuali. Fin da quell’età non sopportavo i finocchi. L’unico della mia città – l’unico che conoscevo e che si faceva riconoscere – era Aldo, un biondone grosso e goffo che ci salutava sempre con una manina tonda e rosa, gonfia di pinguedine con le unghie curatissime, ma non laccate. Non sopporto i froci. Il loro essere sempre e comunque diversi, i loro stupidi distinguo, il loro incessante e imprevedibile mettere tutto al centro dell’attenzione, il loro irrefrenabile egoismo, il loro voler pontificare, rintuzzare, asserire, rimestare, osservare, affermare sempre e comunque di non essere diversi, ma di essere “naturalmente” diversi. Che non vuol dire niente. Insopportabile. Un panegirico incessante, riluttante, per non ammettere di essere froci. Non li sopporto da quando avevo 15 anni e, leggendo Zora la Vampira pensavo allegramente: sono dalla parte giusta, quella di chi si fa le seghe guardando questi disegni che abbondano di tette cosce capezzoli culi e mutandine. Sono dalla parte giusta , perché dentro questi fumetti si scopa tra uomini e donne, al massimo – ma può essere permesso – qualche leccata tra donne, quello si. Ma mai tra uomini. Nei giornalini, quelli seri, i froci non esistono. Non sono amati. Non sono mai stati amati da nessuno. Al massimo sopportati. La loro mollezza di lumache senza guscio, lenti ed inutili, non hanno mai contribuito a conquistare niente. Né a destra né a sinistra. Né Hitler né Che Guevara hanno mai amato i frosci. Un motivo ci deve pur essere. Io, oggi, non regalo molto peso alla questione. In questo momento, poi. Non sono molto interessato e non è più, da molti anni il fulcro del miei pensieri. Son diventato più morbido. Ho abbandonato la flagellazione per questi stupidi ominidi. Sono, al massimo, per l’allontanamento, un allontanamento psicologico. Basta con i ciucciacazzi, ne abbiamo abbastanza anche tra gli etero. Hanno preso piede anche dentro i nostri salotti. Per questo mi chiamavano Tex Willer. Per quel mio approccio cinico nel vedere le cose e nell’analizzarle senza mezzi termini. Tex Willer è cattivo. Anche se tutti lo dipingono come il paladino della libertà. Ma non è vero. Ha ucciso migliaia di uomini mandandoli tutti “all’inferno” – lo dice sempre, con assoluta e certosina sicurezza – senza mai un regolare processo. Lui è giudice supremo e ti manda all’inferno – mai, non dico al Paradiso, ma qualcuno al Purgatorio – senza appelli. Ho sistemato tutto. Dicono sia importante riuscire a fare stare tutto dentro una piccola sacca. Non ne sono molto convinto ma, per la prima volta non ho commentato. Ho solo infilato, dentro una sacca viola – terribile colore – poche cose, tutte dannatamente anonime e senza nessuna anima. Spazzolino, dentifricio, qualche mutanda, un cambio e qualche libro. Scelto non a caso. Era un’idea che trotterellava da tempo dentro i miei pensieri. Un libro è sempre un buon biglietto da visita. Ti chiedono sempre che libri leggi l’autore preferito il libro sul comodino – ho solo la pistola, sul comodino – se ami i classici – io ritorno, con la mente a Zora la vampira. Un libro che segnasse la mia storia oppure qualcosa che si discostasse, che cancellasse qualsiasi riferimento della mia stronza esistenza. Perché io sono uno stronzo. Non sono di quelli che in fondo in fondo lo sono. Sono stronzo. Molto stronzo. Sono partito da una scelta piuttosto anonima. Dai promessi sposi passando per Boccaccia e planando sul Leopardi. Liceo. La mia professoressa che piangeva su Leopardi. Sul suo piacer figlio d’affanno. La mia compagna di banco, Simonetta, – che per un panino di faceva vedere le mutande e per dieci sigarette ti faceva toccare le tette, la stronza, dieci sigarette che erano, per me la dose quotidiana. Non ho mai fatto cose molto semplici. Non posso cominciare proprio oggi. Viaggio in Portogallo. Di Saramago. Per costringere tutti a scrivere sulla metafora del viaggio. Sarebbe un ottima scelta. Molto intellettuale. Ma, troppo scontata. Un viaggio non è mai definitivo. Tranne questo. Viaggio in Portogallo. Ottima scelta Tex Willer. Anzi, pessima. Potrei cambiare, rimettermi in gioco, rivedere questa cosa. Potrei ragionare con l’altro cervello. Quello di Aquila della Notte. Non ci sono abituato. Non sono mai stato abituato a rivedere le mie scelte. Ho sempre odiato gli indiani. Io sono solo Tex, quello che ammazza e picchia e maltratta i cattivi. Dall’altra parte. Una scelta è per sempre. Non è un viaggio. Sotto questo profilo sono molto prevedibile. Per chi mi conosce. E’ arrivato il tempo. Abbiamo calcato le scene. E non abbiamo mai avuto una parte. Una parte conosciuta. Sempre nell’ombra. Da attori non protagonisti. Consapevoli, invece, di essere i padroni della scena. Ho preso la sacca, quella viola e mi sono guardato dentro. Ho ancora l’anima di Tex Willer e lo sguardo assetato per Zora la vampira. Ma dentro le vene non macino più sangue. Ho depositato mille borse, e ho incontrato occhi che dovevano volare e ho spezzato voci e sguardi e, come Tex Willer sono andato avanti, verso un deserto costruito con i silenzi accondiscendenti di tutti. Non mi sono mai voltato indietro. Lo hanno fatto gli altri. Per mischiare le mille verità dentro immense bugie. E’ calata la tela e davanti, non c’è più il giallo deserto, ma una verde collina. Quella è la mia meta. Senza meta e con rughe che raccolgono lacrime senza tempo. Sono colpevole. Ma non ho capito perché nessuno ha mai pagato il conto. Sinceramente non riesco a farmene una ragione. Né come indiano né come Tex Willer. Ho concimato il deserto e sono nate piccole vipere. Ma avevo solo quel concime e non avevo acqua a sufficienza. Ho diritto, nonostante tutto, a vivere sopra la collina. Con gli altri, vicino ai sorrisi che ho smorzato, che ho volontariamente reciso senza capire le motivazioni. Ho diritto a una risposta. Ho diritto a una pacca sulla spalla. Ho diritto a sottrarmi dal rumore assordante che milioni di occhi producono. Ma ho il dovere – e qui è Tex che sopravvive – di pagare il mio conto. Sulla collina ci vado malvolentieri e ho diritto ad un posto lieve, sul versante sinistro del cuore di ognuno che occupa, involontariamente, quel posto da troppo tempo. Ecco, io sono la scheggia che mancava, la pietra miliare di tutte le battaglie. Sono l’alfa e l’omega, la radice quadrata di un numero impossibile, un logaritmo indecifrabile, sono l’essenza di un poeta impazzito, la formula che non esiste. Io sono ciò che gli altri hanno voluto che fossi: il colpevole. Affinché loro potessero continuare a cercare assassini con un cuore di terra e di polvere. Senza nessun colore. Sono il prodotto di una serie di scelte. Ma io, di mio, non ho mai deciso niente. Molti anonimi che si aggirano dentro questo paese da molti anni e che hanno prodotto, materialmente tutte le stragi senza volto. Con molta ipocrisia. E quelli che hanno condotto “la trattativa”. Piazza fontana, 12 dicembre 1969 – 17 morti e 88 feriti Gioia Tauro, treno Freccia del sud 22 luglio 1970 – 6 morti e 50 feriti Brescia, piazza della Loggia – 28 maggio 1974 – 8 morti e 107 feriti treno Italicus – san benedetto val di sembro – 4 agosto 1974 – 12 morti e 44 feriti – Bologna stazione centrale, 2 agosto 1980 – 85 morti e svariati feriti – treno rapido 904 – 23 dicembre 1984 – 17 morti – Ustica 27 giugno 1980 81 morti nessun superstite. – Firenze Via dei Georgofili, 27 maggio 1993 – 5 morti – Milano, via Palestro 1993 – 5 morti
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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