“Terrone di merda”. Dentro le parole scelte per un’offesa c’è un mondo, aspetti strutturali di una personalità che emergono, incontrollabili, nel momento in cui l’ira esplode. Il leghista Gian Marco Centinaio, nuovo ministro dell’Agricoltura, circa un anno fa apostrofò come “terrone di merda” il presidente del Senato Piero Grasso. Per me quell’insulto è sintomatico, principalmente per una ragione: era del tutto inappropriato, completamente fuori contesto, perciò più significativo. Mi spiego meglio. Nella seduta del Senato in cui Centinaio offese Grasso non si parlava di questioni politiche che, in qualche modo, potessero interessare la contrapposizione tra settentrionali e meridionali. Non si litigava per la spartizione di fondi o la distribuzione di contributi tra nord e sud. Si parlava di un’inversione dell’ordine del giorno nella discussione sullo Ius soli. Nella bagarre per una questione regolamentare sull’ordine dei lavori, Centinaio ha scagliato quelle parole contro il presidente dell’aula. Cosa c’entrava l’essere terroni? Nulla. Io penso che per il nuovo ministro quel riferimento alle origini meridionali di qualcuno risulti ancora il più offensivo degli epiteti. Lo si può usare in qualunque momento, in qualunque situazione, rivolgendolo a qualunque interlocutore (meridionale) si voglia colpire. Manifesta un pregiudizio profondo che, strappato al politicamente corretto dalla rabbia del momento, rivela verità profonde. Credo infatti che, nei suoi tratti essenziali, la Lega resti il partito fondato da Bossi trent’anni fa: un partito contro il Meridione, contro Roma, contro tutto ciò che è distanza geografica e culturale. Salvini è stato abile nello spostare il nemico qualche migliaio di chilometri più a sud, per far sentire “nord di qualcosa” quegli stessi meridionali che una volta la Lega giudicava diversi e inferiori. È accaduto quando i leghisti hanno capito che, con sorrisi e pacche sulle spalle, potevano raccattare consensi anche a sud della Padania. La prima sezione leghista, in Sardegna, nacque a Trinità D’Agultu. Un parlamentare del Carroccio che ci trascorreva le vacanze estive fece una gita in barca con un pescatore del posto. Ad un certo punto il pescatore tirò su un’aragosta, ma la dovette restituire al mare. “Perché?”, chiese la camicia verde. “Perché la legge non ci permette di pescare quelle troppo piccole”, rispose il marinaio. Il leghista promise che avrebbe cambiato quella legge, il pescatore gli diede retta e divenne il primo segretario di un circolo leghista in Sardegna. La legge sulle aragoste non è cambiata, ma nel frattempo la Lega in Sardegna e al sud spopola. Anche se per loro restiamo terroni di merda.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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