L’altro giorno ho fatto un’escursione. Caprera, solo sentieri, niente mare. L’appuntamento col mio ospite era per le 7.30 del mattino. Fa caldo, troppo, così ho proposto un’escursione breve, per non dover rischiare di cuocere sotto il sole a picco.
All’ora dell’appuntamento la piazza è già zuppa di umido e calore. Un’aria grigiastra soffoca il mare. Non si muove nulla che non abbia le gambe o un motore.
Alle 7.45 mi squilla il telefono; è il mio ospite. Dice di pazientare qualche minuto. Alle 8.00 non si vede ancora nessuno, ma non ho fretta e non mi scompongo. Alle 8.10 arriva un tizio su una moto, mi punta da lontano e man mano che si avvicina mi sta già parlando. Mi ha individuato da subito. Mi chiede se posso guidare io perché la notte prima, in uno sterrato, la moto gli si è ribaltata addosso schiacciandogli il polso sinistro. Dico “Non ho con me la patente, ma già che ci siamo posso andare a casa e prendo la mia macchina” “No, vabbuò (è di Amalfi), ci arrangiamo”.
Mi offre un caffè e inizia a raccontarmi un po’ di avventure degli ultimi giorni. Mi fa l’elenco delle cose che ha fatto, delle persone che ha conosciuto, di quello che gli hanno raccontato. Intuisco che sarà una giornata particolare. Intanto il sole avanza, staccandosi dall’orizzonte; il caldo sale. Mi imbarco sulla sua moto e ci dirigiamo a Caprera, sentiero di Teialone. Comincio a parlargli delle piante che ci sono, a raccontargli qualcosa della storia di queste isole, ma lui è più bravo di me: appena prendo fiato lui parte con un racconto su qualcosa che ha fatto, su qualche fatto che gli è capitato, su qualche impresa di un suo antenato o di un suo vicino di casa, il tutto rafforzato da proverbi e massime di matrice popolare, vero collante tra un intervento e l’altro. Iniziamo i tornanti e lui continua a parlare. Poi, arrivati in cima, prima della scalinata finale si accende una Marlboro rossa (erano le mie preferite). Mi chiede se possiamo fare una pausa così si fuma la sigaretta e non gli viene l’affanno. Guardo l’orologio e mi rendo conto che dovremmo essere già a metà percorso, mentre siamo a mala pena all’inizio. Vabè, fretta non ne ho, contento lui… mi dico.
Mi parla del suo mondo. Della gente appena uscita dalla guerra. Mi racconta di questi suoi parenti che giravano per Napoli col carretto, raccoglievano il grasso delle bestie dai macelli, lo squagliavano e lo vendevano alle fabbriche di sapone. E poi si sono messi a vendere mobili e non so che altro, partendo dal grasso squagliato.
Finisce la sigaretta, la spegne per terra, raccoglie un pezzo di carta trovato tra i sassi e lo usa per avvolgere il mozzicone. Si mette il pacchetto in tasca e ripartiamo. Sulla scalinata mi racconta della sua casa di Amalfi, che sta in cima a una gradinata di 153 gradini. Amalfi, anzi, la frazione dove sta lui, è tutta scale. Fino a un secolo fa non c’erano strade, solo scale. Dalle barche alle case si andava solo a piedi e solo su scale. Niente strade, niente sentieri. Scale.
Mentre lui parla (sta parlando quasi solo lui), mi viene in mente di quando su quei gradini di Teialone ci andavo con i miei figli che a mala pena camminavano, ma si facevano tutta la scalinata gattonando. Nello stesso momento lui mi racconta dei suoi (la più piccola ora ha trent’anni), allevati allo stesso modo: scalini.
Arriviamo su e improvvisamente sta zitto. Il Tirreno è una tavola blu coperta da un cielo di vapore. Cala Cuticciu è già piena di barche. Il caldo quasi non lo sento più. Faccio per raccontargli qualcosa sugli esperimenti condotti da Marconi agli inizi del Novecento (una stazione su Teialone, una al Puntiglione e una a Becco di vela), ma lui inizia a raccontarmi del padre. Soldato, finisce prigioniero dei tedeschi in Germania. Finita la guerra non riparte subito perché nel frattempo aveva avviato un’attività insieme a una ragazza che aveva conosciuto non ricordo in quale paese della crucchia. Alla fine però, verso la fine degli anni 40 decide di tornare in Italia. La compagna capisce che è un addio e gli regala, per il viaggio, un cuscino di piume, perché non dormisse troppo scomodo sui treni che avrebbe dovuto prendere. Quel cuscino esiste ancora, mi dice. Più volte riparato, rifoderato, rilavato, rigenerato, ha fatto da piumino a lui, a suo fratello, ai suoi figli e ai suoi nipoti.
Lo porto in cima alla vedetta. Mi chiede i nomi di tutto quello che si vede. Vuole orientarsi. Vuole capire da dove arrivano i venti che conosce. A un certo punto decido di raccontargli qualcosa su Garibaldi. Scopro che lo detesta. Però e curioso, vuole sapere come abbia fatto ad arrivare sin qui, in quella casa che da Teialone sembra un quadratino bianco nascosto dagli alberi. Allora gli racconto che quando il generale è arrivato qui e si è iscritto all’anagrafe locale, dando le sue generalità (un generale non può sottrarsi) disse “Garibaldi Giuseppe, agricoltore”. Alla fine mi confessa che sta iniziando a rivalutarlo.
Scendiamo dalla vedetta e prendiamo per Poggio Zonza. Siccome la prossima tappa è la Batteria di Poggio Rasu superiore (fine Ottocento) provo a raccontargli di come i Piemontesi e poi il Regno d’Italia abbiano fortificato le isole a ondate: fine Settecento, fine Ottocento e inizi del Novecento. Questo in teoria. In pratica sta continuando a parlare lui. Mi parla di popoli, di amicizia, di come, se noi maddalenini siamo il miscuglio imbastardito di 100 razze diverse, loro a Napoli sono il risultato di 100.000 razze diverse. Si, Napoli, che nel frattempo, tra un racconto e l’altro, si è fatta sempre più grande e ora è una specie di gigante rossa che ha ingoiato Amalfi, il Cilento e sta per annettersi anche Roma.
A un certo punto incrociamo uno con la faccia sorridente, stremato dal caldo (sono le 11), che ci chiede se va bene per Cala Cuticciu. Gli spiego che no, non va bene, e che deve tornare indietro fino all’asfalto, farsene almeno un quarto d’ora verso nord e poi girare a destra e farsi altri 40 minuti di sentiero scosceso. Nel frattempo il mio ospite attacca un bottone memorabile al viandante e a sua moglie. Scherza con loro come se li conoscesse da vent’anni, mentre saranno passati trenta secondi si e no. Riesco a riprendere il controllo della situazione e ci dirigiamo verso la casa corsa di Poggio Zonza. Mi chiede di rallentare un po’ in salita e appena arriviamo su, all’ombra dei lecci, si accende un’altra sigaretta. Io guardo l’orologio e gli faccio una tabella di marcia, visto che vorrebbe finire per la mezza.
Finita la sigaretta (questa volta ero davanti e non so come l’abbia spenta), arriviamo alla fine del sentiero e ritroviamo l’asfalto. E con l’asfalto una macchina di austriaci che si ferma per chiedere informazioni. Purtroppo (o per fortuna, non so) il passeggero davanti parla italiano, essendo austriaco ma anche di Trento, e il mio amico gli chiede se ha portato le Palle di Mozart (giuro). Questo prova a spiegargli che col caldo non è consigliabile e nel frattempo parla con me che cerco di spiegargli come arrivare all’imboccatura del sentiero per Cala Brigantina. Ma il mio ospite è più affabulatore e porta l’attenzione del trentino e degli austriaci verso il suo monologo. Noto che con loro parla italiano, mentre con me si esprime solo in napoletano, o meglio, in quel napoletano per tutti che quelli del sud capiscono bene, quelli del nord un po’ meno. Infatti il trentino muove la testa e lo sguardo cercando di non sembrare scortese con il mio amico e allo stesso tempo di capire dove caspita è il sentiero che stanno cercando. Glielo spiego, ci ringraziano e vanno via. Lui mi fa “questi non tirano fuori un euro manco se li paghi”. Facciamo appena in tempo a scollinare e vediamo il macchinone superare il punto che gli avevo indicato e dirigersi da tutt’altra parte. “Eppure tu sei stato anche troppo preciso. Io non gliele avrei date tutte quelle informazioni gratis. Peggio per loro”.
Mentre imbocchiamo lo scivolo laterale al sentiero per entrare nella Batteria (il ponte di ingresso è crollato da anni ed è meglio non fidarsi dei travi che resistono al loro posto), lui si attacca al telefono e prende accordi per l’iscrizione alla Federazione Italiana Vela, che un amico conosciuto la sera prima al Karaoke gli ha promesso di fargli avere seduta stante. Il tipo non risponde e allora proseguiamo. Dentro la fortezza gli racconto delle piante che hanno colonizzato i graniti abbandonati della struttura, gli spiego e gli mostro come funzionava il sistema di trasporto delle munizioni, il loro stoccaggio, l’assemblaggio, l’approvvigionamento delle piazzole di tiro, il mimetismo dei cannoni (giganteschi) e dell’intera Opera muraria, e poi lo porto ancora una volta a vedere il Tirreno. Cala Cuticciu è sempre più piena. Bellissima ma affollata come un centro commerciale. L’escursione è quasi finita. Ci giriamo per uscire e vediamo una macchina nera che tenta di far manovra nello spiazzo sotto la Batteria. “Gli Austriaci” gli dico. “Strunzi”, mi fa lui “vedrai che ti chiederanno altre cose”. Io intanto mi sto già sbracciando per indicare a loro (lontani 200 metri ma che ci hanno già individuati) la direzione da prendere. Ma gli Austriaci sono lenti quando il termometro viaggia sopra i 35, e a mezzogiorno di venerdì 17 luglio 2015 lo spiazzo di Poggio Rasu è una piastra di ghisa per bistecche già intorno ai 40.
Arriviamo giù e gli austriaci stanno ancora scaricando le vettovaglie. Il trentino mi implora con lo sguardo di dar loro un ultimo aiuto. Nel frattempo il mio amico mi fa , a bassa voce “Spiegami come arrivare alla moto, ti pago qui e tu porti loro giù. Poi ti vengo a prendere. Fatti dare almeno venti euro. Guarda che non ce la fanno” . Io intuisco che non andrà così e mi avvicino al gruppo per spiegare che strada devono fare. Ma lui insiste “dimmi come arrivo alla moto, non ti preoccupare per me, accompagnali”. In realtà non voglio portarli, neanche se me lo chiedono; ho già dato loro due biglietti; se vorranno, nei prossimi giorni mi chiameranno loro. Quindi li porto fino alla bocca del sentiero e ci salutiamo. Neanche cento metri e troviamo una coppia di spagnoli. Cercano Cala Cuticciu. Inutile dire che il mio amico, ormai padrone del territorio, inizia a spiegare lui che strada fare. Poi però inizia a parlare della Spagna. Allora intervengo io e vado al sodo. Spagnoli contenti, pacche sulle spalle, strette di mano e via, si riparte. Gli ultimi due chilometri gli servono per raccontarmi bene bene della sua famiglia e di un condominio in cui è amministratore. Negli ultimi duecento metri viene fuori quello che avevo intuito. Andare in pensione dopo quarant’anni di ufficio lo ha sbalestrato. Ora sta girando l’Italia. Vuole recuperare qualcosa. Mi ringrazia e mi chiede scusa, ma soprattutto mi ringrazia “mi so’ sfogate cu ‘tte”. Saliamo sulla moto; a tratti corre come un pazzo e a me passa la vita davanti. Giù in paese si fa accompagnare in libreria perché la sera prima ha ordinato (qui, capite, qui) Cristo si è fermato a Eboli. Vuole anche il mio primo libro. In libreria ne hanno ancora qualche copia. Davanti alla chiesa ci salutiamo. Per una serie di motivi decido di fare a piedi il tratto fino a casa, tanto è breve. Mi rinnova l’invito ad andare a trovarlo. Mi dice di cercare “La casetta tra i limoni”. È il b&b di famiglia.
Mi sa che, pensione o no, un giorno ci farò un salto.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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