Dice che attori e registi tremano quando il palcoscenico si tinge di giallo. E non a caso le riduzioni teatrali stile crime story si contano ormai sulla punta delle dita. E’ un genere difficile perché non puoi giocare con i manierismi, la platea vuole delitti e assassini dai contorni scolpiti e recitati bene. Se un attore inciampa in un’afasia durante un approfondimento introspettivo, pochi se ne accorgono. Se cade in un atonico bla bla quando c’è sangue di mezzo, il pubblico si incazza. E non sta a vedere se sia colpa dell’autore, ci rimettono attore e regista. La scelta dei testi è quindi improntata a una spietata selezione. Si pensi che persino l’ormai antica Compagnia Stabile del giallo di Roma ogni tanto rischia di chiudere per mancanza di nuovi copioni. Vanno tutti sul sicuro con testi collaudati tipo “Una trappola per topi” di Agatha Christie, che in quanto a repliche gareggia con “My Fair Lady”. Il problema è che ci sono poche commedie nuove davvero adatte a raccogliere l’eredità dei gialli classici e a competere in teatro con l’impressionante quantità di fiction televisiva spesso di qualità eccellente. I noir contemporanei, inoltre, specchio di mondi sudici e nebbiosi, sono difficili da rappresentare. Ma anche il giallo classico presenta i suoi problemi, con i plot avvinghiati a personaggi che corrono da una parte all’altra bisognosi di riduzioni sceniche che non pretendano continui cambi di scenografia, a esempio. Ed ecco perché la sfida della Compagnia Teatro Sassari con la “Serata in giallo” rappresentata lo scorso fine settimana al Teatro Civico di Sassari, era di quelle dure. E il successo ottenuto dallo storico gruppo ha dimostrato tutta la sua maturità artistica e la sicurezza ormai acquisita nel viaggiare anche su oceani infinitamente lontani dal Mare Nostrum del teatro di etnia, quella sorta di ragione sociale a cui Giampiero Cubeddu si ispirò fondando la compagnia. Il presidente della Compagnia, l’attore Mario Lubino, tra tante altre ha ora accettato anche questa prova e ha scelto di mettere in campo l’affermato regista e autore teatrale, oltre che a sua volta attore, Emanuele Floris, il quale ha curato l’allestimento di due opere. Ad aprire la serata il breve e intenso pezzo “La verità”, con il quale l’esordiente Andrea Taffi aveva vinto la penultima edizione del premio di drammaturgia sarda intitolato a Giampiero Cubeddu. E poi “Campioni del mondo!”, complesso e trascinante legal thriller che, in una sapiente costruzione scenica, esonda dall’aula del tribunale verso i suggestivi e sordidi luoghi nei quali il delitto era maturato. L’autore è lo stesso Emanuele Floris. Un’opera, quest’ultima, che se entrerà in un circuito nazionale contribuirà senz’altro a fare fronte alla crisi di nuovo materiale per il giallo a teatro. La commedia di Taffi è ambientata in uno studio legale dove due personaggi agiscono in un serrato dialogo: l’avvocato Loriga, interpretato da Mario Lubino, che ancora una volta gioca con grande sicurezza con il suo registro drammatico, tessendo la parte in una gamma di toni ed espressioni che muovono da una normalità borghese per arrivare ai culmini angoscianti del finale; e un estemporaneo cliente, certo Cugia, che un bravo Claudio Dionisi dipinge nella nervosa ma incalzante follia del personaggio pensato dall’autore. Floris ha letto questo bel testo di Taffi imprimendogli un’aura pinteriana che ne esalta la pressione psicologica. In una scenografia spoglia, dove due sedie e una scrivania non distraggono l’attenzione dall’accanito duello tra i protagonisti, si consumano i temi tipici dello stile narrativo inaugurato da Harold Pinter, quali l’incomunicabilità e la coesistenza di personalità diverse e antitetiche nello stesso individuo: persone normali oppresse da una condizione sociale ed esistenziale che assumono valore emblematico. Taffi muove dalla normalità dei due protagonisti e Floris ne interpreta e valorizza i passaggi successivi verso un’evoluzione molto lontana dalla normalità, dove carnefice e vittima si scambiano i ruoli in quel contraddittorio incontrarsi di psicologie diverse nella stessa persona, tipico dello stile di Pinter. Un piccolo dramma, questa “Verità”, dove convivono il marcato realismo di una situazione consueta e l’improvviso surrealismo che porta in scena, sull’onda della bella prova interpretativa di Lubino e sul folle incalzare del Cugia di Dionisi, echi dell’assurdo di Ionesco e Beckett. Di Pinter, in questa regia di Floris, mancano forse soltanto i silenzi, quelle pause che come nella musica sono parte integrante dell’armonia. Ma evidentemente il regista ha scelto di non tradire il plot colmo e incalzante voluto dall’autore di questa pièce dal sapore anche autobiografico: Taffi è infatti un avvocato che come ogni frequentatore di aule di giustizia avrà vissuto sulla propria pelle la discrasia tra la verità e la verità processuale, alterazione comune che l’autore ha efficacemente raccontato nel suo testo dandogli una originalità narrativa. Più complessa, ma completa e assolutamente agile in ogni movimento, la commedia di Emanuele Floris. Un gioco di citazioni che va dalla cifra apertamente gialla di Agatha Cristhie sino a “Testimone d’accusa”, capolavoro di Billy Wilder, passando per il Norman Bates del “Psycho” di Bloch, al quale Hitchcock nella sua immensa versione su schermo diede l’inquietante volto di Anthony Perkins. Ma ci ritrovi anche “I nervi a pezz”i, il grande psicothriller di Roy Boulting, con l’inquietante Martin di Bennett, e persino il Dustin Hoffman di “Un uomo da marciapiede” di Schlesinger. Insomma, una serie di rimandi assorbiti da un testo che li metabolizza nella sua originalità assoluta, basata su una drammatizzazione dall’impronta cinematografica che Floris rende sul palcoscenico con una ideale sequenza di primi piani, flashback e altri strumenti del linguaggio cinematografico. In quel 12 luglio del 1982 che segnò la vittoria italiana ai campionati del mondo di calcio, agisce una fantasmagorica batteria di personaggi uniti da un delitto. A parte il compassato e ingenuo avvocato impeccabilmente interpretato dallo stesso Floris, tutti gli altri vivono un’affascinante plurima personalità. Paolo Giovanni, imputato, di mestiere innocente, ma poi chissà. Pirandellianamente “sono pazzo o non sono pazzo?” come il nobile dell’Enrico IV, è interpretato da un bravo Ignazio Chessa, istrionico e drammatico, capace di gestire con abilità attoriale tutti gli improvvisi e numerosi cambi di registro di questo forte personaggio. Paolo Giovanni è succube ma forse anche carnefice di un suo complesso amante, De Molocchia (sarà un riferimento al Moloch, il dio che vive dei sacrifici dei suoi adoratori?), ma detto anche Loretta; De Molocchia è intepretato da un altro dei pezzi forti della Compagnia Teatro Sassari, Alfredo Ruscitto, che in gesti misurati e tragici rende la ributtante e insieme affascinante personalità di questo usuraio schiavo del piacere e della gioia nella crudeltà, oltre che vittima. Come tutti, in fondo. E notevole è il modo controllato e discreto in cui Ruscitto rappresenta l’omosessualità del suo personaggio senza mai cadere nella tentazione del macchiettismo. E l’altra apparente padrona di Paolo Giovanni è la forte e quasi asessuata moglie, interpretata dalla brava Teresa Soro, che si sdoppia nel personaggio di Bachisia Clamidia, l’altro aspetto della femminilità, aggressiva e volgare, fortemente passionale, personaggio probabilmente ispirato a Floris dalla Christine interpretata da Marlene Dietrich in Testimone d’accusa. Teresa Soro ha retto con tutta la tranquillità delle sue molteplici corde interpretative anche nella scena dell’agnizione in cui la moglie svela la sua doppia identità trasformandosi improvvisamente in Bachisia, una lady Hyde dialettale fatta volare dall’autore-regista tra le bettole dei quartieri malfamati di una città che somiglia a Sassari. A manovrare Paolo Giovanni c’è anche una super femmina, Amanda, interpretata da Margherita Massidda, personaggio anche questo dai diversi profili. Compare in vari momenti del dramma quasi in veste di osservatrice, fuori dalla vicenda, una voce narrante verghiana perché straniante come i misteriosi protagonisti di certe narrazioni del verista che apparentemente fanno parte del coro del paese ma sono estranee alla storia. E invece qui all’improvviso Amanda entra di prepotenza nella storia, diventandone persino protagonista.. La Massidda ha una sicurezza scenica e una controllata esuberanza che rivelano la sua abilità di danzatrice (in questa veste ha partecipato a prestigiose manifestazioni), ma è notevole anche la sua recitazione in un ruolo certo non facile. Che dire infine dell’ottima prova dell’attrice Alessandra Spiga? Le è affidato forse il personaggio più difficile di questo dramma giallo, la compassata Governante-Infermiera alla quale non è permesso alcun gesto scomposto, nessuna ruffiania scenica che faciliti all’attrice il compito di rivelare la personalità più dura e contraddittoria della commedia. Quindi con l’abile uso dei soli toni e di controllate espressioni, Alessandra Spiga ha fatto vibrare ogni corda di questa terribile, disperata e impassibile sterminatrice “in nome del Dio dell’antico Testamento”. Alessandra dà i brividi in questo coacervo di infelicità repressa e di fredda accabadora di soldati moribondi, sorda o non sorda a seconda della necessità di partecipare o di isolarsi da realtà che la escludono. E gli anni Ottanta di quel campionato sono l’altro personaggio di fondo, senza interprete. O forse interpretati da tutti, in particolare dall’Amanda della Massidda, con la sua isterica amoralità. Un’opera complessa che Emanuele Floris (con le luci di Marcello Cubeddu, gli effetti sonori di Eliana Carboni e la scenografia di Vincenzo Ganadu) ha sempre tenuto nell’ambito di una estrema leggibilità, sfuggendo alle tentazioni di indecifrabili significati e simbolismi (unico divertissement un grande telegatto che al momento dell’assassinio vuole rappresentare un moderno e biblico vitello d’oro) per stare nelle righe di una narrazione ricchissima di suggestioni e di godibile senso compiuto. Come si conviene a un giallo teatrale d’autore.
Nella foto di Michela Leo una scena di “Campioni del mondo!”
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 18.018 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design