Arrivammo a scuola e trovammo tutta imbrattata la facciata su cui si apriva il portone d’ingresso. Se non ricordo male, lo slogan era stato tracciato con una vernice nera. Diceva così, esattamente come la trascrivo oggi: “La cultura e come la marmelata, meno cene più la si spalma”. Erano venuti di notte e nessuno se n’era accorto. Era il 1987 e ci eravamo da poco trasferiti nel nuovo istituto, nella zona 167. Dalle finestre al primo piano vedevamo le case popolari, palazzi tutti uguali e già allora trasandati, costruiti su un punto dominante da cui si vedeva tutto il paese. Nella mia ingenuità di ragazzino di seconda liceo, pensai fosse nulla più che una bravata. Ma il professore di latino dedicò buona parte della lezione a condannare l’episodio. Con tono grave, pesando con attenzione pause e parole. Ricordo che ironizzò sui grafomani responsabili dello sfregio: “Persone di profondissima cultura”, commentò sarcastico. Ci volle un po’ prima che la classe capisse il suo umorismo e gli concedesse una risata amara. Ci eravamo trasferiti nel nuovo istituto solo pochi giorni prima. 1987, credo fosse marzo. Quello stabile grigio, brutto, in severo cemento armato, sembrava l’inizio di una nuova fase della nostra giovane vita. Per il primo anno e mezzo di superiori eravamo stati reclusi nell’appartamento di via Colombo, dove fino allora si erano diplomati tutti quelli che avevano frequentato lo scientifico “Lorenzo Mossa” di Arzachena. Era una casa di civile abitazione, in fondo ad una traversa di via San Pietro, negli spazi ristretti del centro storico. La piazza del paese era in cima alla salita di via San Pietro, andando cento passi in direzione opposta c’era la caserma dei carabinieri, il tutto raccolto in poche centinaia di metri. Alla ricreazione ci era concesso di andare al Bar Smeraldo – tutto era Smeraldo, ad Arzachena, in quegli anni – e potevamo svagarci con il primo videogioco a gettoni che io abbia visto, la simulazione di una gara di formula uno. Altri ne approfittavano per farsi preparare un panino imbottito al minimarket della signora Laura, oppure per una pizzetta calda da Uscidda. Il docente di religione era il parroco. Ci portava in una buia mansarda per proiettare non so più quali filmati e, dopo un quarto d’ora, si addormentava sempre. Non c’erano tutte le restrizioni e le assurde precauzioni di adesso. La ricreazione era un quarto d’ora di libertà assoluta, e il mondo non era migliore di quello di oggi. Oggi una scuola così non potrebbe esistere.
Nel giro di una settimana caricammo sedie e banchi su un camioncino e trasferimmo tutto al nuovo stabile. Fummo noi studenti a fare da operai, con un entusiasmo che a ripensarci ora non saprei dire da quale riserva potessimo attingere. In fuggenti lampi di memoria ricordo il volto abbronzato del padroncino del furgone e noi, seduti accanto a lui, nell’andirivieni tra via Colombo e la 167, seguiti dalla densa nuvola di fumo emessa da quel catorcio. Ci fu la festa d’inaugurazione e vennero sindaco e autorità dalla Provincia, ente proprietario dello stabile. Il professore di latino lesse i telegrammi di felicitazioni dei politici che, “per concomitanti impegni”, non avevano potuto presenziare alla cerimonia. Il giorno dopo uscì tanto di articolo su La Nuova Sardegna.
Poi, quella mattina, trovammo la facciata linda della nuova scuola imbrattata di vernice nera, con quelle parole di sprezzante derisione, in un italiano approssimativo. Ci volle un po’ per capire. Per capire che per una parte dei nostri coetanei noi eravamo quelli che, piegandosi sui libri, pretendevamo di essere classe dirigente. Quelli che volevano comandare, quelli che un giorno si sarebbero sentiti in diritto di impartire disposizioni, dare ordini e tracciare la rotta. Per loro eravamo liceali. Ci sentivamo sul piedistallo perché studiavamo da intellettuali. Avevamo il privilegio di venire da famiglie che non ci avevamo mandato in cantiere, ma avevano investito sul nostro studio. Figli di borghesi benestanti, delle famiglie che avevano sempre comandato e volevano perpetuare il loro potere attraverso i titoli che i figli avrebbero conseguito. Questo loro credevano o volevano far credere a loro stessi. Io ero e sono figlio di camionista e casalinga. I miei compagni erano figli di manovali, fabbri, carabinieri, impiegati. Nella mia classe non c’erano padri avvocato, commercialista, notaio. C’erano padri dalle mani callose che proiettavano sui figli il sogno di vederli sistemati dietro una scrivania, con uno stipendio sicuro il 27. Sicurezze per le vite dei loro figli, vite che quei padri speravano meno amare e sofferte di quanto fosse toccato a loro. In quella scritta sul muro del mio liceo scientifico io vedo, oggi, lo stesso disprezzo per lo studio e la cultura che leggo di questi tempi in molti post su Facebook. Con la differenza che per imbrattare con un blitz notturno una scuola appena inaugurata ci voleva un certo fegato: non bastava possedere uno smartphone. In quella vernice nera del marzo 1987, come nel dilagare di post Facebook che oggi sanciscono l’inutilità dell’istruzione, io vedo studio e cultura ridotti a strumenti di lotta di classe, ad armi di prevaricazione di un uomo sull’altro. Studio e cultura dovrebbero essere valori che fanno di noi donne e uomini migliori e non spacciati per mezzi di dominio.
Leggevo la polemica sull’assessora regionale che nella sua vita ha fatto la cassiera. Una polemica inutile e classista, se si crede di poter delegittimare la persona facendole carico dei lavori umili svolti in passato. Ma il problema non è questo. Oggi fortunatamente non ci si vergogna più di aver svolto lavori umili, quelli che a tutti noi, nella nostra vita, prima o poi sono serviti a sbarcare il lunario. Il guaio è che oggi aver studiato sembra essere diventata una colpa o pretesto di dileggio, non il tentativo di essere persone migliori. Il guaio è che oggi chiedere ad un politico cosa abbia fatto nella sua vita, per essere una donna o un uomo migliore, passa per domanda tendenziosa o per attacco gratuito. Chi scrisse sul muro del mio liceo, nel marzo del 1987, oggi è maggioranza.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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