Per chi non fosse del ramo, Strava è un social network per gli appassionati di ciclismo o di corsa. Funziona così: uno si compra uno sportwatch – sarebbe a dire un orologio con gps integrato che monitora spostamenti, distanza, tempo e nei modelli più evoluti anche il battito cardiaco e la potenza sviluppata – e quando ha finito la propria corsa, a piedi o in bici, scarica tutti i dati dall’orologio sulla app di Strava. In questo modo, ciascuno può vedere i giri fatti dai propri contatti su questo social sportivo. Che so io, oggi scorrendo le performance dei miei contatti Strava ho visto che Jack Fothergill il 3 luglio ha pedalato per 44 chilometri in un circuito stradale di Warwick, a sud di Birmingham, in Inghilterra, impiegando per concludere la prestazione 1 ora, 28 minuti e 14 secondi e spendendo 878 calorie. Fothergill, che non conosco nella vita reale e non so come sia diventato mio contatto Strava, ha anche ottenuto due ottimi tempi nei segmenti di Packwood house hill e Foxhole Hill. A questo punto, voi che non conoscete Strava mi chiederete cosa sia un segmento. Un utente di Strava può creare un tratto di strada che la App riconosce come segmento, in modo che di tutti quelli che vi transitano si sappiano le prestazioni. Esempio: io posso creare un segmento che comprenda il tratto di strada dall’ingresso sulla statale vicino casa mia fino a località Lu Corru mannu di la fulca, in modo che su quello spezzone di percorso si possa misurare la velocità di tutti quelli che lo completano, coprendo l’intera distanza da un capo all’altro. Chi ha il record nel segmento si dice che ne detenga il Kom, così si chiama il primato nel linguaggio del social. Quando si fa sport, lo sappiamo, è difficile sottrarsi alle velleità agonistiche. Anche a costo di sfiorare il patetico, quando si hanno 46 anni come me e uno stile di vita non proprio da atleta come il mio. Spesso in mountain bike mi cimento su un percorso di 34 chilometri, per metà su fondo sterrato, che si snoda tra le campagne di Arzachena, Olbia e Sant’Antonio di Gallura e sfiora le chiese campestri di Santu Jacu, Santu Santinu, La Grucitta e Santu Paulu Calta. Dal livello del mare ci si arrampica sino a superare i cinquecento metri di quota e, da lassù, si gode della vista di magnifici panorami sulle coste della Gallura.
In questi ultimi mesi, allenandomi assiduamente e curando l’alimentazione, ho capito che riuscivo a migliorare sensibilmente i miei tempi, tanto da abbassarli di un quarto d’ora nel giro completo. In alcuni segmenti, non so come, riesco a far segnare anche prestazioni più che dignitose. Prova oggi e prova domani, quest’anno ho pedalato per circa tremila chilometri.
L’altra mattina sono montato in sella all’alba, per fare il solito giro. Ho calzato il casco, il body e le scarpe con gli attacchi. Ho infilato pure le auricolari, anche se per legge e buon senso non si potrebbe: la musica mi dà la carica e, tutto sommato, io giro per sentieri di campagna dove non passa mai nessuno, non c’è molto pericolo se non sento quel che mi accade attorno. Superate le località di Cudacciolu, Sarraiola, Spridda, Monti Diana, Monti Longu e Santu Jacu, sono arrivato ai piedi del segmento Strava denominato Passo delle Capre: una salita di un chilometro e mezzo che risale il colle di Monti Santu, dal fondo sterrato assai pesante e scivoloso, con pendenze sempre ben oltre il 10 per cento e punte del 27 per cento. Per chi non fosse pratico di questi parametri, mi limiterò a dire che è un tratto davvero impegnativo e che si può domare solo se si ha un certo allenamento.
Pedalavo perlopiù a testa bassa, lanciando fugaci occhiate al tempo che scorreva sul display del mio Garmin, ogni tanto succhiavo qualche goccia di sali minerali dalla borraccia. Non erano ancora le otto del mattino, ma faceva già molto caldo e mi sentivo prosciugato dal sole e dalla fatica. In cuffia, in quel momento, avevo “Le acciughe fanno il pallone” di Fabrizio De Andrè. Quando stavo attaccando il terzultimo tornante, allo stremo, la canzone suonava alla strofa che recita “sorso d’acqua dolce che liberi dal mare”: la suggestione delle parole mi ha come rinvigorito, come se l’immagine di un fiotto gelato avesse riempito di nuova energia il mio sangue. Tra una pedalata e l’altra, mi è arrivato quel minimo di ossigeno al cervello per osservare tra me e me che l’arte, a volte, ha benefici molto pratici. All’ultimo tornante, ho incrociato una campagnola che scendeva. L’autista mi ha fatto un cenno e mi ha anche detto qualcosa, ma io avevo la musica in cuffia e ho solo visto le sue labbra muoversi, senza intenderne le parole. Voleva dire, l’autista, che stavano per arrivare due cavalieri in groppa ai loro maestosi purosangue. Marciavano al passo e io mi sono dovuto fermare, perché in quel tratto la carreggiata si restringe e rischiavo di finire sotto i loro zoccoli con tutta la bicicletta. Ero scocciato, questi contrattempi stavano guastando il mio allenamento.
Appena i quadrupedi sono usciti dalla mia vista e prima che potessi ripartire, ho guardato alla mia sinistra. E ho visto qualcosa che sapevo, ma avevo dimenticato.
Rilucevano al sole potente di luglio le sugherete, lungo la valle ai miei piedi, lungo tutta la campagna limpida e quieta del mattino, fino al mare. Un mare piatto, argenteo, sbarrato a destra da Capo Figari, la rocca sopra Golfo Aranci. Era difficile distinguere la linea dell’orizzonte, tanto l’aria era tersa.
Mi sono levato il casco e le auricolari e sono rimasto a guardare. E a sentire i rumori della natura. Mi sono ricordato che al Passo delle Capre, in bici, ho iniziato a salirci molti anni fa, proprio per passare qualche minuto in muta contemplazione di questi panorami, non nel tentativo di limare qualche secondo al mio primato sul segmento Strava. Scendendo da Monti Santu, in direzione nord, la vista spazia verso la Corsica e offre le montagne dell’Isola gemella, oltre le Bocche di Bonifacio. Mi sono fermato e ho scattato una foto, come non facevo da tempo. Non la foto di un piatto servito al ristorante, di un attimo irripetibile della mia vita, di un concerto, non uno di quei momenti che ormai preferiamo vedere attraverso il filtro di un display, anziché coi nostri occhi, presi come siamo dal bisogno di fissare tutto su una memoria digitale. No, ho scattato quella foto come un omaggio a quel che avevo attorno.
Poi mi sono chiesto: perché devo correre, perché devo sfidare gente che neppure conosco, perché devo perdere il gusto di sentirmi parte della natura per questa tardive manie competitive. E sono sceso piano piano verso casa, cercando di captare suoni e profumi della campagna. Come facevo una volta, quando ho iniziato a fare lunghe escursioni in bicicletta. La vita è dura, il mondo non ti regala nulla, occorre sgomitare: non mi faccio illusioni. Ma perché bisogna combattere anche quando non ce ne sarebbe bisogno, perché bisogna sempre fare in fretta e non perdere tempo, perché tutto deve inevitabilmente finire in una sfida tra uomo e uomo, perché bisogna lasciarsi travolgere dal bisogno di misurarsi e misurare il più forte?
L’altra sera sono andato a cena con tre amici che hanno partecipato alla Gran Fondo delle Dolomiti, la più prestigiosa manifestazione agonistica del ciclismo dilettantistico. Si parte all’alba, con temperature per noi invernali, e si pedala tra i solenni scenari delle montagne sfumate di rosa. Quest’anno gli iscritti erano 9200, per darvi un’idea. E arrivavano da tutto il mondo, per darvi un’altra idea. Nel 2009, il primo ciclista a tagliare il traguardo della Gran Fondo (140 km di percorso, 4200 metri di dislivello) venne squalificato e la vittoria gli venne tolta. Doping? No, semplicemente perché aveva gettato per strada la carta di una barretta energetica che aveva appena mangiato, peraltro mentre era inquadrato dalle telecamere. Il regolamento della Gran Fondo la considera un’infrazione da squalifica immediata e la sanzione, severissima, venne applicata senza esitazioni. Questo regolamento è molto politico, indica delle priorità: prima viene la natura e il suo rispetto, poi la gara e i suoi onori.
Cosa c’entra tutto questo con l’inizio del mio racconto? Credo che lo sport sia competizione, ma anche e soprattutto contatto con la natura e rispetto. Questo rispetto lo si dimostra tenendosi in tasca le cartacce, fermandosi ad osservare un tramonto o un fiore che sboccia a bordo strada, spegnendo Strava o usandolo senza che diventi un’ossessione o l’unica ragione di un’escursione. Se sostituite alla parola “sport” la parola “vita”, vale uguale.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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